RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

VIDEO KILLED THE RADIO STARS

Chissà perché, Turandot si è sempre dimostrata terreno fertile per le più fantasiose rivisitazioni da parte dei registi che di volta in volta si trovavano a dirigerla. Ricordiamo ad esempio una bella edizione di Henning Brockhaus per il Teatro dell'Opera di Roma, nel 2007, dove secondo una struttura a cornice un'ambientazione italiana anni '20 racchiudeva, attraverso una sapiente dinamica scenica e registica, l'azione principale ambientata in una Cina atemporale – riproponiamo nel confronto questa versione poiché vi cantava lo stesso Calaf dello spettacolo che ci accingiamo a recensire, Antonello Palombi.

Nel nuovo spettacolo prodotto in collaborazione con il Teatro Massimo di Palermo e il Badisches Staatstheater Karlsruhe, andato in scena il 5 giugno al Comunale di Bologna, l'operazione che si compie va ben oltre una logica metateatrale. Non si tratta di accenni, sfumature, o rimandi ad uno stile, qui si parla di una scelta forte, una presa di posizione netta e senza mezze tinte, dichiarata già nel foglio di sala dal regista Fabio Cherstich, ideatore della messa in scena insieme al collettivo di artisti AES+F, il quale non utilizza i consueti meccanismi di rivisitazione della versione classica, dove un'ideale lente deforma attraverso sottili dettagli trama e personaggi, bensì propone un semplice spostamento temporale nel futuro, con tutte le conseguenze tecnologiche e sociali che ne conseguono. Come nella migliore tradizione fantascientifica, l'azione si svolge in un preciso anno del futuro prossimo, il 2070, mentre la Cina in cui si dipana la vicenda è un megaimpero multietnico governato da Turandot e basato su un “cyber matriarcato radicale”. Per quanto riguarda la delineatura dei personaggi c'è poco da dire, poiché se è vero che si pone l'accento su alcuni aspetti sociali di grande attualità –sessualità fluida, multietnicità, violenza sulle donne- l'essenza dei caratteri rimane immutata, o meglio non trattata, mantenendo quindi l'originale semplicità dal sapore leggendario del soggetto.

Il principale merito degli ideatori sta quindi nell'aver saputo cogliere l'importanza crescente del continente asiatico, e della Cina in particolare, nell'assetto socio economico globale attuale -sebbene il fenomeno sia talmente gigantesco che non ci vuole il grande artista per riconoscerlo- e nell'aver mantenuto, speriamo volutamente, l'aura di mitico esotismo che si porta addosso la Turandot. Ci vogliono però grandi registi e ottimi scenografi per suggerire attraverso gli strumenti del teatro, che rimane una macchina rudimentale se paragonato alle smisurate possibilità tecniche del cinema, quella credibilità nella rappresentazione che porta lo spettatore all'immersione completa, onirica, nello spettacolo. Qui invece si è giocato tutto sull'ambizione di lasciare al pubblico una grande opera d'arte contemporanea, un pezzo unico da museo, tralasciando la poliedricità di un'opera d'arte totale, qual è la lirica. Praticamente tutto lo sforzo del collettivo AES+F si esaurisce nella realizzazione di un monumentale fondale video, coloratissimo, denso di dettagli, costantemente presente, e in cui si riconosce l'eccezionale qualità tecnica del prodotto in computer-grafica. Impossibile enumerare la notevole quantità di elementi iconografici che si susseguono nella proiezione. Impossibile e inutile, perché oltre alla buona resa estetica della Pechino del futuro, metropoli dalle forme organiche e fluorescenti, il resto è una sovrabbondanza di animali antropomorfi, corpi nudi in composizioni dal vago gusto rinascimentale, macchine volanti già viste in almeno 20 film. Una corsa a occhi spalancati in un chao-shì metropolitano, un frullato XL dallo speziatissimo sapore orientale, stucchevole al palato di un occidentale, in cui si mescolano centinaia di citazioni cinematografiche – Blade Runner, Avatar, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Brazil eccetera eccetera e ancora eccetera.

Gli schermi sul fondale incombono dall'inizio alla fine e si prendono tutta, o quasi, l'attenzione necessaria a capire cosa succede sul palco. C'è un continuo attrito tra la fluidità eterea dell'azione proiettata e la goffa semplicità della realtà: sarà forse per questo che le dinamiche di scena appaiono lente, impacciate, troppo legate ad uno stile di recitazione classico; sarà forse anche per questo che l'orchestra diretta da Valerio Galli esegue lo spartito a volumi da amplificazione, facendo vibrare l'edificio, mentre i cantanti raggiungono sovrumani picchi di potenza vocale, come per riuscire a farsi udire da un pubblico assordato dalle immagini.

Oltre al già citato Palombi – non ci dilunghiamo sulla mise da contractor/Rambo, che eufemisticamente definiremo audace – che si trova a suo agio con la parte, cavallo di battagli del proprio repertorio, ma non per questo sempre preciso e convincente, troviamo una Francesca Sassu nei panni di Liù, capace di sfoggiare una voce ariosa, delicata, ben rispondente al personaggio di donna dolce e fragile, e una Turandot interpretata da Ana Lucrecia  García, presenza troppo terranea nei panni della principessa e forse, anche per la natura della voce rotonda, matronale, più a suo agio in ruoli di altro tipo.

Sulle note dell'ultima, noiosissima e inutile parte dell'opera, orfana di Puccini, si esaurisce la nostra pazienza; ma non siamo soli, perché, il pubblico mostra tutta la sua elettrica umanità, e in un'onda di irrequietezza scatta foto, lascia suonare cellulari, si contorce sulle poltrone cercando riparo dalla molesta aria condizionata necessaria a rendere il teatro vivibile in questa stagione. A fine spettacolo, la cascata di corrente gelida è rimandata verso il palco da una folata di buh. Crudele, cinica ironia della sorte, in cinese “bù” significa “no”.

Giovanni Giacomelli

9/6/2019

Le foto del servizio sono di Rocco Casaluci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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