RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Popolo di Pechino… Turandot è questa!

Turandot al Palazzo Ducale di Piacenza

“Popolo di Pechino, la legge è questa”, proclama inesorabile il Mandarino, nel libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, al levarsi del sipario sull'Incompiuta pucciniana. Chi detiene un potere assoluto fa e disfa a suo piacimento la legge, che ai sudditi tocca soltanto subire nel bene ma soprattutto nel male. La terribile fiaba cinese, che, discesa dai lombi di Gozzi e Schiller approda all'ultimo Puccini – dopo aver sedotto in maniera diversa Weber, Bazzini e Busoni – è cinica, crudele e sanguinaria a sazietà, mentre gli sprazzi di compassione non sono che minuscole oasi nel più arido, sconfinato deserto.

Folgorato al pari di Calaf al primo apparire di Turandot, il “principe” Giacomo se ne disamora alla fine, quando il suo cuore non batterà che per la tenerissima Liù. Abbandona la gelida belle sans merci, condannandola al Limbo. Non è riuscito a scongelare quel blocco artico che ha inseguito per quasi un quinquennio, mentre è lei che ha avuto il malefico potere di ghiacciare lui. Gli sventurati aspiranti alla sua mano le hanno sacrificato la “superba testa”, Giacomo le dovrà sacrificare a Bruxelles la superba gola in quel tristissimo 29 novembre 1924 (quando manca quasi un mese al suo 66° compleanno).

Forzando la mano al padre, imperatore debole ed ormai declinante, la feroce principessa spedisce sul patibolo senza battere ciglio decine e decine di nobili pretendenti, incapaci di risolvere i suoi enigmi. Vuole in tal modo vendicare un'antenata, che in un remotissimo passato, morì vittima di uno stupro. In lei in realtà coabitano “disperato orgoglio [e] onanistica superbia” (Enzo Siciliano, Puccini), poiché la sola idea di dover sacrificare a un uomo la propria verginità semplicemente la terrorizza. Il miracolo della conversione all'amore, anche dopo l'immolazione di Liù, non avviene ed il finale ultimo “posticcio”, confezionato dal pur valoroso Franco Alfano sulla traccia dell'abbozzo di Puccini, è un forzato happy ending che non convince. Come nella tradizione dell'opera semiseria, a cui Turandot in un certo senso si richiama - altrimenti, che ci starebbero a fare i gioviali Ping, Pang e Pong? - il lieto fine ineludibile comporta una dose di inverosimiglianza, basti pensare a due più che illustri esempi nel genere: Fidelio di Beethoven e La Gazza ladra di Rossini.

Ma Turandot rinverdisce inoltre, a suo modo, il genere del grand opéra all'italiana – quello di Aida, Gioconda e Guarany – fornendone un estremo, sontuoso e suggestivo esempio nei colori della favola remota. L'irresistibile invenzione melodica e l'intuizione drammaturgica infallibile continuano a sorprendere in una partitura, che conferma la maestria impareggiabile dell'orchestrazione pucciniana, arricchita qui dalle tinte e ricerche timbriche più appropriate. Fedele a sé stesso, Puccini non rinuncia anzi esalta il pezzo chiuso, ma segue nel contempo con vigile orecchio, partecipe e non impreparato, quanto avviene attorno a lui e altrove e la stima e l'ammirazione che continuano a tributargli i compositori coevi, Schönberg tra questi, non sono certo usurpate.

Le feste patronali di Sant'Antonino Martire a Piacenza hanno offerto di nuovo in questo luglio l'occasione alla Tampa Lirica, benemerita associazione locale, di varare una ministagione estiva con due titoli di sicura attrattiva nel cartellone: Turandot e La Vedova allegra. Nella continuità delle stagioni la discontinuità della scena, poiché questa volta gli spettacoli sono stati ospitati nella vasta corte del Palazzo Ducale (Palazzo Farnese) riempita da un folto pubblico.

La scena praticamente unica era costituita da una gradinata inquadrata da quattro pilastri tronchi. In alto un podio, con il trono per Altoum e Turandot, e ai piedi della gradinata lo spazio per le masse e gli altri personaggi. I cambiamenti di scena venivano resi con proiezioni varie. Regia, scene e costumi erano nelle esperte mani di Artemio Cabassi. Bellissimi i costumi e suggestive le coreografie, buona la partecipazione dei figuranti. Ma la scena della tortura di Liù è risultata una non-scena, per fortuna lo si capiva sulla scorta del libretto.

Dopo un'interminabile mezz'ora abbondante di presentazione da parte di due attori, coadiuvati da un chitarrista abbastanza fuori posto, avvenuta nella disattenzione generale, è finalmente apparso il maestro per dare l'inizio alla rappresentazione.

Alla guida della diligente Orchestra delle Terre Verdiane, Stefano Giaroli ha diretto con vigore e slancio, esaltando ora l'impeto ora la delicatezza dell'eloquenza pucciniana mentre il Coro dell'Opera di Parma, condotto da Emiliano Esposito, si è fatto valere nei vari interventi, in particolare nella magica “sospensione” del grandioso coro del primo atto che richiama la rarefatta atmosfera del Coro a Bocca chiusa della Butterfly, nonché nel contributo al superbo sestetto del Finale primo, in cui Puccini “riesuma con successo il magniloquente pezzo d'insieme” (Giuseppe Rausa, Storia dell'Opera Italiana).

Quanto agli interpreti, la piccola Tampa Lirica riesce a radunare cast, che potrebbero fare invidia a certi teatri, che si giovano dei “provvidi” serbatoi di talune agenzie. E in Turandot le voci necessarie sono tante. A cominciare dai tre personaggi giocosi ma non troppo, Ping, Pong e Pang, rispettivamente affidati al baritono Simone Tansini ed ai tenori Saverio Bambi e Vincenzo Tremante, un trio affiatatissimo, disinvolto e versatile, che ha tra l'altro reso scherzoso e stuzzicante il quadretto di ‘Ho una casa nell'Honan'. Nei ruoli principali, sono ben disegnate in speculare contrasto l'imperiosa e inflessibile protagonista del soprano francese France Dariz, nella piena padronanza del suo personaggio, e la dolcissima, trepida e appassionata Liù dell'ucraina Svetlana Kalinichenko. Più che credibili, anche scenicamente, l'ardimentoso e spavaldo Calaf del giovane tenore Francesco Fortes ed il commovente Timur del basso Juliusz Loranzi. Non vanno dimenticati il Mandarino del baritono Valentino Salvini e l'Imperatore Altoum del tenore Stefano Consolini. Applausi prolungati ed entusiastici per tutti alla fine.

Fulvio Stefano Lo Presti

17/7/2018