RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Su ali di morte giunge Turandot

Turandot è una fiaba crudele, come del resto molte versioni originali delle fiabe che hanno accompagnato la nostra fanciullezza: il finale reale di Cappuccetto Rosso è infatti davvero cruento, con la bimba che viene divorata dal lupo, ma senza poi essere salvata dal provvidenziale cacciatore; lo stesso dicasi di Biancaneve, giacché nella versione originale è la madre e non la matrigna a nutrire istinti omicidi. In Turandot la crudeltà della protagonista coinvolge in un'orgia sanguinaria tutto il popolo di Pekino, ma trova il suo sfogo finale in una povera schiava innamorata, la dolce Liù, che si suiciderà pur di non svelare sotto tortura il nome del principe ignoto. Eppure Calaf, presente al sacrificio estremo della schiava, non solo non si accende d'odio per la principessa, ma se possibile l'ama ancor di più, ed alla fine è la crudeltà a vincere, pur se si stempera in appassionato amore ad opera di un bacio che nelle favole tradizionali svegliava una principessa, ma certo non addolciva le belve.

Forse proprio questo stridore di fondo fu all'origine della lunga gestazione dell'opera che, iniziata nel 1920, rimase ancora incompiuta alla morte di Puccini, avvenuta nel 1924. E non è un caso che, pur se travagliata, la stesura si bloccò proprio dopo la morte di Liù, quasi il compositore non riuscisse a trovare una soluzione, sia drammaturgica che musicale, ad una trama che, per quanto fiaba, pretendeva e pretende troppo dalla partecipazione dello spettatore. Turandot è e rimane una figura antipatica, e per molti versi lontanissima dalle eroine tradizionali del melodramma. Per questo forse vide giusto Arturo Toscanini quando, alla prima rappresentazione, depose la bacchetta sulle note che concludono l'episodio della morte di Liù, nel punto esatto dove aveva finito Puccini, oscuramente conscio che un finale in Turandot non c'è e non può esserci, ma solo rabberciature posticce che poco o nulla hanno da spartire con la partitura originale. E non si capisce perché ci si ostini ancora, dopo i due finali di Alfano e quello di Berio, a voler completare un'opera che non ha più bisogno di essere completata dell'Incompiuta di Schubert; è certo questo un vezzo strano, e che non disturba affatto i più strenui difensori della filologia musicale che, pur andando su tutte le furie per un taglio non aperto o per qualche nota in più o in meno, non trovano nulla da ridire per Turandot, limitandosi ad un “è ormai una consuetudine”, il che è l'esatta negazione della filologia tutta, almeno da quando Lorenzo Valla scoprì la falsità della donazione di Costantino, per consuetudine ritenuto documento autentico di epoca imperiale.

Fatta questa premessa, a nostro avviso necessaria per entrare nel merito degli scompensi drammaturgici di Turandot, che musicalmente è invece un'opera fortemente innovativa e moderna dal punto di vista musicale, dove l'Oriente non rimane più una mera suggestione ma entra con prepotenza nella partitura, passiamo a parlare della Turandot andata in scena al Bellini di Catania il 12 ottobre (turno A), e che rimarrà in cartellone fino al 22.

La regia era di Luigi Pizzi, su allestimento dell'Associazione Arena Sferisterio – Macerata Opera Festival, e ripresa da Massimo Gasparon: una messinscena sontuosa, sanguigna, che agiva, contrariamente al libretto, su una scena fissa rappresentante il palazzo imperiale di Pekino, tutta giocata sui toni del rosso e del viola, quasi a sottolineare la crudeltà della trama cui alludevamo poc'anzi. Al centro campeggiava una figura femminile aracnifome a sedici braccia, che non era una rimando alle divinità indù, ma un esplicito rimando alla femmina del ragno, che ha l'abitudine di divorare il compagno alla fine dell'accoppiamento, e che nella psicanalisi è passata a indicare l'aspetto più inquietante della femminilità, connesso al tessere la tela, e imprigionare e infine a uccidere. Turandot dunque come ragno al centro di una tela da lei stessa tessuta, ragno che divora, che è presente anche quando è assente, ben nascosto in un angolo della trappola. E questo rimando alla crudeltà si snodava su tutta la scena, illuminata a tratti da luci purpuree, nel primo apparire della principessa velata di rosso, in un ondeggiare di veli ampi come ali di morte, e nei costumi, sempre neri, o viola, o rossi, tranne il candido abito di Timur, quasi a simboleggiare l'innocenza della vecchiaia o la lunga vista della cecità.

L'orchestra del Bellini, guidata da Antonio Pirolli, si è mossa con estrema disinvoltura, con tempi abbastanza serrati ma che sapevano ben mettere in evidenza i rari momenti lirici dell'opera, quelli in cui Puccini ritornava alle melodie aeree e solari dei suoi capolavori precedenti, e con sonorità a tratti debordanti come richiede la partitura, giocata su un colore orchestrale assolutamente estraneo al panorama lirico italiano precedente. Preciso e accurato il lavoro delle percussioni, come anche quello del coro, protagonista di tutto rilievo, che sotto la direzione di Ross Craigmile è diventato realmente personaggio canoro, mostrando una coesione ed una cesellatura timbrica di tutto rilievo. Buona anche la prova del coro di voci bianche "Gaudeamusigitur", istruito da Elisa Poidomani.

I tre ministri, Giovanni Guagliardo, Ping, Saverio Pugliese, Pang, e Ganluca Bocchino, Pong, hanno ben evidenziato la peculiarità del loro ruolo non solo comico, ma anche e soprattutto sdrammatizzante della vicenda, quasi un “ma chi te lo fa fare” rivolto all'ostinato Calaf. Tutti e tre hanno sfoggiato ottima dizione e notevole musicalità, oltre a movenze sceniche che, una volta tanto, hanno mostrato i tre ministri non come buffoni, ma come ottime persone ingabbiate in un mestiere che magari detestano, e che continuano a svolgere sognando le loro tranquille e idilliache residenze di campagna.

Giuseppe Costanzo, l'imperatore Altoum, si è disimpegnato discretamente, senza riuscire però ad imprimere al suo ruolo quella ieraticità e quell'autorevolezza che sarebbero state necessarie. Ottimo invece il basso Andrea Comeli, Timur: dotato di una voce profonda e di una ottima brunitura, ha infuso una dolente umanità al personaggio del vecchio re cieco, specialmente nell'accorato appello a Liù morta, dove è riuscito a trovare accenti davvero commoventi.

Rosanna Savoia, Liù, molto più a suo agio qui che nei ruoli belliniani, ha trovato un giusto equilibrio vocale, specie in “Tu che di gel sei cinta”, nonostante certe asprezze timbriche che mal si sposano alla dolorosa dolcezza del personaggio.

Sung Kju Park, che avevamo già ascoltato in Norma a settembre, ha trovato forse nel principe Calaf un ruolo più confacente alla sua voce, vuoi per la tessitura meno impervia, vuoi forse anche per la non necessità dell'eleganza di fraseggio e di espressività che richiede il recitativo belliniano. Ha dimostrato maggior sicurezza nelle zone acute e una maggiore morbidezza timbrica (complice forse anche il teatro al chiuso), e una discreta sicurezza scenica. Il suo “Nessun dorma”, ha strappato vivi e calorosi applausi, a parer nostro motivati più dalla grande musicalità di Park che aall'effettiva potenza della sua voce, tutt'ora incerta nei sovracuti e poco sonora nelle zone gravi.

Susan Neves, Turandot, ha confermato le doti di eccellente soprano drammatico che le hanno consentito di interpretare più di cento volte l'impervio ruolo di Abigaille: dotata di una zona acuta che le ha permesso di affrontare con estrema disinvoltura le note più impervie della tessitura, ha dato prova di un bellissimo centro e di un'assoluta eccellenza dei passaggi di registro, oltre che di una dizione chiara e incisiva, che, unita ad una potente imperiosità del gesto drammatico, ben sottolineava la crudeltà del suo personaggio.

Giuliana Cutore

13/10/2016

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.