RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Rigoletto senza scala: perché?

Con la recita di domenica 17 febbraio 2019 termina l'avventura torinese del Rigoletto verdiano. Si conclude così la “trilogia popolare” proposta dal Teatro Regio di Torino, iniziata col Trovatore in apertura di stagione e proseguita con La traviata a gennaio; e si conclude, curiosamente, con la prima delle tre opere della “trilogia” ad essere stata composta: vide infatti la luce nel 1851, debuttando l'11 marzo dello stesso anno alla Fenice di Venezia. Famose le schermaglie con la censura, durante la messa a punto del libretto, par Francesco Maria Piave, che trasse argomento da Le Roi s'amuse di Victor Hugo: troppo licenzioso un potente che, da programma, si diverte disonorando fanciulle e cornificando la corte senza nemmanco preoccuparsi di nasconderlo o a pentirsi, che sbatte in faccia a tutti la sua libertà di godersi il mondo, sorta di principe Prospero alla Poe ante litteram; un potente, tra l'altro, troppo facilmente identificabile con Francesco I: e allora sotto a spostare la vicenda dalla Francia all'Italia, Mantova e dintorni, con un meno pericoloso Duca senza nome, e ad attenuare le sue uscite troppo esplicite: la richiesta che fa a Sparafucile diventa così «una stanza e del vino», anziché «tua sorella e del vino»: un esempio tra i più famosi. La restitutio ad integrum del libretto originale ha permesso di apprezzare queste battute delle quali oggi si ride, ma che all'epoca rasentavano la sconcezza.

Il Teatro Regio di Torino riprende la regia di John Turturro, al suo debutto nel campo del teatro musicale, ideata per il Teatro Massimo di Palermo nel 2018: una coproduzione con la Shaanxi Opera House di Xi'an e con l'Opéra Royal de Wallonie-Liège. Una regia di taglio tradizionale, con minime deviazioni dalle indicazioni librettistiche. L'azione è posticipata, dal secolo XVI pensato da Piave, all'epoca dei cicisbei e dei nei finti, la fine del Settecento, gli anni dell'ultimo Mozart e di Casanova (reincarnato nel Duca di Mantova, dato il suo libertinaggio: e il fantasma di Don Giovanni occhieggia dietro il sipario), quell'ancient régime che sa di decadenza sociale, apparenza da un lato e sostanza dall'altro, e, giocoforza, anche di decadenza morale. Lo si evince dalle scene di Francesco Frigerio – un salone decorato da bianche statue di torniti nudi femminili (non a caso), che si perde in un corridoio tutto marmi e ritratti – e dagli efficaci costumi di Marco Piemontese. Realistiche anche la casa di Rigoletto, ridottissima stamberga a due piani con piena visione dell'interno grazie all'asportazione d'una parete (camera da letto di Gilda al primo piano, dove avviene il duetto d'amore), e della sbilenca osteria di Sparafucile del III atto, al limitare d'una foresta minacciosa, resa ancor più tale dall'illuminotecnica di Alessandro Carletti. Delle volteggianti figure maschili incappucciate in mantelli neri che si aggirano per la foresta, sorta di Villi declinate al maschile o, con riferimento a un classico contemporaneo, ai Mangiamorte decritti da J. K. Rowling, resta oscuro il significato, ma la resa scenica di un'ambientazione tenebrosa e di paura è innegabile. D'altro canto, si sta per compiere un omicidio, ordinato per vendetta a un sicario, in una notte di tempesta: non proprio quel che si definirebbe uno scenario rassicurante!

Due particolari sono tuttavia degni di menzione. Al primo atto si assiste al rapimento di Gilda da parte dei cortigiani. Rigoletto, contravvenendo al libretto, resta fermo e bendato in scena e senza scala (avendo sistemato la camera da letto di Gilda al primo piano, la scala appoggiata alla casa sarebbe stata realistica), mentre i cortigiani procedono al rapimento… spostando semplicemente la casa del gobbo, montata su ruote, verso il fondo del palcoscenico, con Gilda dentro a chiamare aiuto dal suo letto, e colà lasciandola in ombra fino alla chiusura del sipario. Perché? Secondo particolare: alla fine del III atto Rigoletto scopre che nel sacco consegnatogli da Sparafucile non c'è il Duca, ma il corpo agonizzante di sua figlia Gilda. Per Turturro, invece, Gilda appare da una quinta laterale del palcoscenico e va ad adagiarsi fra le braccia del padre, inginocchiato davanti al sacco. Vi è forse la volontà di rappresentare la proiezione, la visione mentale di Rigoletto, il fantasma di Gilda già passata a miglior vita (Gilda che, da dopo essere uscita dalla camera da letto del Duca, sfoggia per il resto dell'opera, e quindi anche nella scena conclusiva, una sottoveste rossa, forse un sottile – ma neanche tanto – psicologico-freudiano-fisiologico riferimento sessuale al rapimento della sua virtù?): di certo, lo spettatore medio, tutto rapito all'acme del coinvolgimento emotivo dell'opera – Oddio, adesso apre il sacco, come ci resterà? – non può che venire distratto da questa trovata, innescando quei meccanismi riflessi del cervello, che, mettendosi a pensare per decifrare l'arcano, cancella in un istante tutto il crescendo emozionale preparato fin dal quartetto a inizio atto. Ancora una volta: perché?

Il versante prettamente musicale fa registrare un buon consenso di pubblico ma non di critica. Promosso a pieni voti il Rigoletto di Carlos Álvarez, un nome una garanzia, che unisce espressività e calore vocale a notevoli doti sceniche, e sostiene il ruolo con energia dall'inizio alla fine. Pari livello, se non vocalmente superiore, lo Sparafucile di Gianluca Buratto: voce profonda, poderosa e vibrante, e ottima sillabazione del testo. Segue a distanza, nella classifica della bravura, la Gilda di Ruth Iniesta. Buono il duetto con Rigoletto («Figlia! – Mio padre!»: I, ix) e il cantabile Tutte le feste al tempio (II, vi), dove i filati e la padronanza dell'emissione si individuano come sue doti precipue. Male per il resto: sguaiati i gorgheggi di Gualtier Maldè… Caro nome che il mio cor (I, xiii), peggio ancora l'acuto di chiusura del II atto, alla fine della cabaletta duettata con Rigoletto. A sua discolpa c'è l'obiettiva, enorme difficoltà di Caro nome, che richiede un soprano di coloratura non da poco, e il fatto che fosse l'ultima recita: ma ciò di certo non emenda la sua prestazione. Ultimo posto per il Duca di Stefan Pop. Anche qui, la scusante potrebbe essere la stanchezza dell'ultima recita, o la congiuntura infausta di condizioni vocali non propriamente brillanti. Non si può tuttavia sorvolare sulla sua prova davvero deludente: note acute e subacute sforzate dalla prima all'ultima (orribilmente storpiata la pagina più famosa del suo ruolo, La donna è mobile, cadenza e acuto inclassificabili) emesse da una voce rozza e male impostata.

Più potenza vocale e più carisma sarebbero stati ben accetti nel Duca di Monterone di Alessio Verna, dato anche il peso decisivo del personaggio. Sarà per la prossima volta. Accettabili la Giovanna di Carlotta Vichi e la Maddalena di Carmen Topciu. Il cast è completato da Paolo Maria Orecchia (Marullo), Luca Casalin (Matteo Borsa), Federico Benetti (Conte di Ceprano), Claudia De Pian (Contessa di Ceprano), Riccardo Mattiotto (Usciere), Giulia Della Peruta (Paggio della duchessa) in sostituzione della prevista Ashley Milanese.

Ineccepibile la prova del Coro del Teatro Regio di Torino, istruito da Andrea Secchi: da anni ormai sono note le qualità di compattezza e uniformità di timbro di questa formazione, e anche stavolta non manca di stupire in cori come O tu che la festa audace hai turbato. Non da meno l'Orchestra del Teatro Regio, al solito agguerrita e smaltata. Peccato per la direzione di Renato Palumbo. Guidata forse da un «genio d'inferno», essa risulta veloce e superficiale in alcuni passaggi e p(a)lumbea, pesante, in altri: l'esatto contrario di ciò che una partitura scattante e brillantissima come questa abbisogna. Non si comprendono e non si condividono certe pesantezze, certi pleonastici rimarchi dell'orchestra; l'unico merito è l'aver messo gli strumenti al servizio delle voci, senza che quelli prevaricassero queste. L'esecuzione delle puntature sdoganate dalla tradizione, poi, non ha contribuito al recupero delle intenzioni verdiane originali (si veda in proposito la conferenza tenuta da Riccardo Muti alla Bocconi nel 1994, facilmente reperibile su YouTube), a partire dall'acuto su «Ah no! è follia!», propalando così una vulgata che, poco o tanto, infanga l'arte del bussetano, per il purista, tanto quanto l'esaltazione del suo abusato zumpappà.

Christian Speranza

5/3/2019

Le foto del servizio sono di Edoardo Piva.