RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Il ritorno dello (k)zar

A stemperare la tensione di due opere a finale tragico, L'ange de Nisida e Lucrezia Borgia, al Donizetti Opera Festival di Bergamo, edizione 2019, ci pensa Il falegname di Livonia, ossia Pietro il grande, kzar delle Russie, “melodramma burlesco”, come viene definito, su libretto del marchese Gherardo Bevilacqua Aldobrandini. Il soggetto non è nuovo in ambito operistico: l'aveva utilizzato già Giovanni Pacini dieci anni prima di Donizetti, che lo derivò dalla commedia Le menuisier de Livonie, ou les illustres voyageurs di Alexandre Duval (1805) per comporre nel 1819 Il falegname di Livonia. E Donizetti stesso tornerà a frequentare l'aneddoto di zar Pietro il grande che viaggia in incognito nel 1827, quando comporrà il borgomastro di Sardaam. In Pietro il grande si ha che la coppia imperiale giunge in Livonia (una regione fra l'Estonia e la Lettonia) sotto le mentite spoglie del boiardo Menzicoff per cercare il fratello della zarina, disperso alla nascita. Lo ritroveranno in Carlo Scavronski, un falegname alloggiato presso la locanda di Madama Fritz, innamorato di Annetta; e poco importa se quest'ultima si scopre essere figlia del ribelle Mazepa, all'epoca dei fatti ormai morto: il fratello della zarina, nonché cognato dello zar è stato ritrovato, e questo è motivo sufficiente per benedire le loro nozze. Lieto fine assicurato e buonumore per tutti. Attorno a questa esile trama c'è spazio per quelle che oggi definiremmo delle gag, grazie ai vari coprotagonisti – il magistrato Ser Cuccupis, l'usuraio Firman e il capitano delle guardie Hondedisky – che verranno puntualmente gabbati e smascherati.

L'opera, composta da Donizetti nel 1819 e andata in scena il 26 dicembre dello stesso anno al Teatro San Samuele di Venezia, rientra nell'interessantissimo progetto “Donizetti 200”, che si propone di allestire ogni anno un'opera del Bergamasco in occasione, appunto, dei duecento anni dalla composizione. Il progetto è partito nel 2017 con Pigmalione ed è continuato nel 2018 con Enrico di Borgogna, la prima opera vera e propria composta (ovviamente) nel 1818. Continua quest'anno, come detto, con Pietro il grande, un'opera che, eccettuato il buon accoglimento che ebbe all'epoca della stesura (e che continuò a circolare fino al 1827), non venne più ripresa per oltre un secolo. Tornò sulle scene soltanto nel 2003 a San Pietroburgo, in occasione del trecentesimo anniversario della città (considerando la sua fondazione il 27 maggio 1703 per volontà proprio di Pietro il Grande); ma, essendo in quel momento in corso il G-8, si trattò di un'esecuzione blindata, di cui esiste soltanto un filmato coi recitativi in russo. L'allestimento venne ripreso nel 2004 al Festival della Valle d'Itria a Martina Franca. Quella del Donizetti Opera Festival 2019 è di fatto la vera prima ripresa moderna, grazie all'intervento critico sulla partitura della musicologa Maria Chiara Bertieri.

Stilisticamente Pietro il grande deve molto a Rossini, imperante in quegli anni, ma deve molto anche alla produzione mozartiana, che il giovane Gaetano conosceva grazie alla mediazione di Johann Simon Mayr, il suo primo insegnante: le parole di Ser Cuccupis – «Se tutto il codice dovessi svolgere, / se tutto l'indice dovessi leggere» – sono cavate di peso dall'aria di Don Bartolo La vendetta, oh, la vendetta nel primo atto delle Nozze di Figaro; ma anche il coro Al stridor bellico dell'oricalco, che apre la scena IX e chiude la scena X dell'atto secondo, ricorda da vicino l'analoga disposizione simmetrica di Bella vita militar in Così fan tutte. Presto Donizetti avrebbe abbandonato il porto sicuro del solco rossiniano-mozartiano per imprimere la sua impronta nel mondo del melodramma italiano primo-ottocentesco.

Il nuovo allestimento del Donizetti Opera Festival 2019, a cura di Ondadurto Teatro, collaborazione registica di Marco Paciotti e Lorenzo Pasquali, è in linea col soggetto giocoso, quantomai cromatico e vivace: propone fondali che ricordano i colori e le geometrie di Vasilij Kandinskij o Piet Mondrian (che russo non è, ma che con la geometria ha una certa confidenza); la locanda di Madama Fritz, o meglio la sua entrata, è stilizzata in un uscio rettangolare sormontato da un'insegna al neon; etc. Certo, non si tratta di una riproduzione fedele del libretto; ma con opere di questo tipo si può essere indulgenti e godersi di tanto in tanto uno spettacolo leggero. Il palco viene montato da mimi durante la Sinfonia, espediente metateatrale già sfruttato l'anno scorso nell'Enrico di Borgogna, anche se in modo diverso. Curiosi i costumi di K. B. Project: tutti i personaggi sono vestiti come marionette coloratissime (Carlo addirittura, in barba al suo mestiere di falegname, da clown, così come Annetta), a campiture ampie e vistose, vagamente anni Sessanta, che possono ricordare, specialmente nel caso di Hondedisky e di Pietro il Grande, certi allestimenti moderni dello Schiaccianoci di Cajkovskij; e, sarà la vicinanza delle ormai prossime feste natalizie o il ricorso frequente, nel folklore russo, a costumi dai colori sgargianti, ma questo modo di snaturare non già l'opera in toto, bensì soltanto il suo aspetto teatrale, pare molto meno dannoso rispetto ad altri e più dissacranti allestimenti, il nome dei cui colpevoli è meglio tacere.

Il lato esecutivo promette molto e molto mantiene, per lo meno nella recita di sabato 23 novembre 2019 al Teatro Sociale di Bergamo. Sotto la bacchetta attenta e briosa di Rinaldo Alessandrini, l'Orchestra Gli Originali dà vita a una Sinfonia esuberante, che strizza l'occhio, come si diceva, a Rossini, ma già introduce lati della personalità donizettiana. La direzione si mantiene poi su un valido sostegno per i cantanti, che non vengono mai prevaricati e sempre sorretti da un impasto sonoro caldo e avvolgente. Si conferma una garanzia Roberto De Candia, alias Pietro il Grande: fiati lunghi, note ben tenute e grande espressività giocano a suo favore, benché, nei momenti di maggior concitazione, emerga un tratto meno raffinato della sua vocalità, più abbozzato, più rude, che inficia, anche se di poco, una prestazione altrimenti inappuntabile. Altra garanzia è Marco Filippo Romano, il Ser Cuccupis della serata, già ascoltato l'anno scorso come Fra' Melitone a Piacenza. Fa piacere ritrovare la sua voce squillante, solida, dal canto sillabato e parlante, adattissimo alla parte del buffo brontolone. E quando i due bassi, Pietro e Cuccupis, iniziano a duettare, si compone un equilibrio di voci gravi dove le differenze si amalgamano e si esaltano a vicenda. Valido anche il Carlo di Francisco Brito, tenore rossiniano di grazia, voce chiara ma potente, che solo eccezionalmente incontra trascurabili difficoltà con le note acute.

Sul versante femminile, Nina Solodovnikova porta sulla scena una Annetta dai tratti di fanciullesca ingenuità, adatti alla sua voce che fa della grazia e della duttilità, se non proprio della vigoria, il suo tratto distintivo di soprano leggero. Ben intonata, dà il meglio in È riposta, o caro oggetto al primo atto (dove viene accompagnata dalle evoluzioni circensi di un'acrobata su un cerchio sospeso – bello: ma perché?); tende a diventare tuttavia pungente nell'acuto e poco presente nel grave. Più robusto il timbro di Paola Gardina, una Madama Fritz combattiva e volitiva, ancorché confinata nel personaggio che stempera le tensioni e agevola l'unione dei due innamorati, in grado di dominare i diversi registri con uno strumento sempre all'altezza della situazione e in grado di prestarsi ai diversi temperamenti che vengono richiesti, dalla decisa locandiera che divide Carlo e Hondedisky alla gattamorta che tenta di sedurre l'incorruttibile Ser Cuccupis.

Completano il cast Loriana Castellano (Caterina), Tommaso Barea (Firman, timbro grave notevole), Marcello Nardis (Hondedisky) e Stefano Gentili (Notaio) e il Coro Donizetti Opera istruito da Fabio Tartari.

Christian Speranza

13/12/2019

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.