RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Madrid

Come si fa il canto da camera

Arrivare proprio all'ultimo momento, il 3 febbraio, al Teatro de la Zarzuela di Madrid, a un recital di questo tipo dopo incidenti di aeroporto chiuso, droni misteriosi, aereo in atterraggio di emergenza e via discorrendo sarebbe senz'altro stato un assurdo e una probabile fonte di disagi di salute quando si ha una certa età. Sedersi sudato, senza fiato quando il concerto sta per cominciare richiederebbe un piccolo periodo di distrazione per calmarsi e mettersi in situazione cercando d'ignorare i giustificatissimi sguardi assassini dei vicini.

Sono molti (mai bastanti) i concerti di Simon Keenlyside che ho avuto il piacere e la fortuna di ascoltare dal vivo per sapere che il rischio valeva la pena anche se il programma non presentava brani quasi mai sentiti prima nella sua interpretazione. Ma la prima sorpresa è stata che appena ha aperto bocca io ho dimenticato tutte le sventure stupide e ho recuperato su due piedi la capacità di concentrarmi sull'unica cosa che contava ed era davvero importante.

E, naturalmente, il viaggio nel mondo del Lied partiva dal suo Schubert che, come sentivo dire alla fine del recital, forse dovrebbe essere sempre la parte finale di qualsiasi concerto da camera, ma particularmente nel caso del baritono inglese visto che il livello e l'emozione sono talmente elevati che, sebbene ci sia una pausa lunga, la seconda parte rischia di sembrare meno 'importante' o 'profonda' (sembrare dico) e in ogni caso c'è bisogno di abituare l'anima – lo spirito, quella cosa strana insomma, chiamatela come vi pare – e anche l'udito. Si tratta sempre e comunque, sia in Schubert sia nella melodia francese che veniva dopo, di una rara emozione come dice letteralmente il sublime poema del martin pescatore dalle incredibili Histoires naturelles di Ravel su poesie (in prosa) di nientemeno che Jules Renard. Perchè dal primo Schubert all'ultimo Fauré in programma tutto è stato esattamente quello.

Sullo Schubert di Keenlyside cos'altro potrei aggiungere? Che è suo per diritto, come di non molti altri interpreti di qualsiasi registro: diretto, introverso ed estroverso, irrequieto, malinconico, parli o meno dell'amore – di solito non corrisposto, infelice, passato: ed ecco Liebesbotschaft , il primo della lunga serie, una Ständchen di una virilità ed energia poco viste in questo notissimo brano ad un tempo straripanti e controllatissime, Dass sie hier gewesen che vi fa venire il nodo alla gola – ma anche le note gravi e acuti di ribellione di quell'incredibile Atlas dove si faceva presente la dovizia dei mezzi e dei registri, l'allucinata presenza del doppio nel Doppelgänger, l'ansia e il riposo del guerriero di Kriegers Ahnung, la soggettiva e meravigliosa ode alla luna d'autunno, gli stati animici tra depressione e angoscia di fronte ai fenomeni e agli elementi naturali, siano questi il mare o il crepusculo, o la visione di una giovane pescatrice – Am Meer, Im Abendrot, An den Mond in einer Herbstnacht, Das Fischermädchen – per concludere, come altre volte, con l'addio, Abschied, deluso ma anelante e traversato dall'amarezza di quanto non è stato e di quanto non tornerà mai più.

Ma se qualcosa caratterizza lo Schubert di Keenlyside è la capacità di farci sentire letteralmente il sospiro (rauschendes è stata proprio la prima parola che cantava) e la varietà d'intensità e intenzione nelle pericolose ripitizioni di parole e versi interi che possono servire di ostacolo in questi testi. Il grande baritono non si risparmiava e otteneva un grande successo da un pubblico numeroso per questo tipo di eventi, attento, conoscitore. Generoso come di solito, Keenlyside voleva condividere gli applausi con la pianista Caroline Dowdle, nuova per me, almeno nei programmi di Lieder dell'artista, e che francamente non mi è sembrata all'altezza dell'occasione. Adeguata o corretta magari, ma si limitava a suonare le note con scarsa o nulla espressività che invece nella voce acquistavano ben altro rilievo e che appunto perciò richiedono un maestro capace di un vero dialogo e non di diventare quasi un concorrente alquanto frenetico – si vedano per esempio i tempi per Abschied, appunto. Un vero peccato perchè il cantante si trovava in una delle sue grandi serate – meravigliosi i pianissimi, i gravi, gli acuti, la facilità del passaggio tra i registri e l'omogeneità assoluta nell'amministrazione del timbro. E poi, che padronanza del fiato.

La seconda parte, come detto, richiedeva in certi o molti momenti una 'riubicazione' in ben altri mondi: ironici, qualche volta 'superficiali' (nel senso che si fa vedere solo la superficie ma si suggerisce che dietro ce n'è altro), raffinati al punto di passare per rarefatti ma nello stesso tempo goliardici e svergognati di alcuni compositori francesi (quando arriverà il momento di un Satie, Sir Simon?) che in questo caso aveva il nome di Francis Poulenc nei quattro poemi di Apollinaire, ma anche nella sua particolare visione della 'Mazurka' o del suo 'ritratto' di Paganini. Lo precedeva però l'inimitabile Ravel dove Keenlyside diventa contemporaneamente un animale (cigno, grillo, pavone o faraona e il già menzionato martin pescatore) e l'osservatore disincantato, umoristico ma con un punto di tenerezza. Insieme alla versione, così diversa, della grande Régine Crespin, e malgrado alcune altre preziose di notevoli colleghi dello stesso registro e perfino nazionalità, questa mi pare definitiva. Seguiva poi un unico Debussy ancora con un pizzico di romanticismo, sempre a modo suo, in Voici que le printemps, che concludeva sulla parola touchante fattasi dichiarazione e spiegazione del testo: commovente ma sempre pudico, per niente scapigliato. Gabriel Fauré ci consentiva di affacciarci per un attimo a un'intimità estrema ma anch'essa discreta in un magico Le secret (un segreto ben custodito, e il migliore in assoluto di quanti ascoltati finora), la delicatezza un po'morbida ma moderata di, come il titolo dice, En sourdine, e, per finire, il rapporto amoroso reale ed impossibile tra la farfalla e il fiore su parole di Victor Hugo.

Siccome gli applausi erano più che insistenti si è rivolto al pubblico dicendo che il programma era già lungo (c'era anche un pezzo per piano di Poulenc) ma che nonostante ciò… E per primo sceglieva di restare nel mondo di Fauré con l'incantevole Mandoline , una cascata di sussurri; per finire, il brevissimo Lied di Brahms Es schauen die Blumen alle – se per esempio si va su youtube si può trovare per prima l'impeccabile versione del grandissimo Dietrich Fischer-Dieskau; se trovate – c'è – quella di Keenlyside potete pensare che sì, dice lo stesso, ma in tutt'altra forma; e ancora in questo caso che ci occupa la sua versione non è stata esattamente quella che ci offre Internet: basta ascoltare le ultime due parole del poema di Heine wehmütig und trüb! E introduceva questo brano dicendo che gli artisti devono, o dovrebbero, innanzitutto portare un messaggio di amore e di vita, ma siccome purtroppo sono anche tenuti a riconoscere l'orrore del mondo in una settimana dove si ricordavano i lager scoperti nel 1945 a guerra finita, e a raccontarci e cantarci anche di questo, metteva nel bel mezzo, a modo di memoria e preghiera il Kadish di Ravel. Di questa elegia dolorosa, tremante e vissuta con accettazione la mia versione di riferimento è quella di Victoria de los Ángeles, ma quest'altra, così maschile ma profondamente sofferta, che ha lasciato muta la sala, può davvero contenderle la palma. Quando, nonostante il suo avvertimento che qui non bisognava assolutaente applaudire, alcuni cercarono di rompere quel silenzio davvero religioso, l'artista li ha fermati con gesto deciso e secco. Perchè il silenzio – quella classe di silenzio che si avvertiva in molti numeri di questa serata ma in nessuno come in questo – è il migliore dei premi: esprime appunto tutto quello che nè parole, nè battere di mani o piedi, nè grida di ammirazione possono arrivare a dire in modo schietto e definitivo. Questa è stata un'esperienza unica e un onore.

Scrivevo questo pezzo quando mi è arrivata la notizia della morte di Mirella Freni. Menomale che dovevo scrivere di questo recital così speciale perchè altra cosa mi sarebbe stata impossibile. Sono stato invece fortunato perchè l'immensa Freni era, in opera, la stessa classe di artista di cui ho avuto il piacere di parlare: onesta, studiosa, per niente diva, con una voce che ha curato e fatto evolvere con cura ammirevole. Anch'essa l'umile ancella del genio creator che ci ha dato e lasciato momenti indimenticabile. Adesso che il sipario è calato per sempre, in silenzio, per l'ultima volta, signora Freni, grande Mirella, grazie.

Jorge Binaghi

15/2/2020

Le foto del servizio sono di Rafa Martin.