RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Una Beatrice per in-tend-itori

Da Genova a Tenda, nelle Alpi Marittime, sono duecento chilometri, malcontati. Restando in Italia, quindi, geograficamente il Carlo Felice di Genova è la piazza più indicata per il repêchage di Beatrice di Tenda, penultimo titolo del catalogo bellininano: non tanto per l'ambientazione della vicenda, castello di Binasco, provincia di Milano, quanto per la provenienza della protagonista: Beatrice Cane, nata a Tenda nel 1372 circa. Che poi si sia sposata in prime nozze con Facino Cane, parente alla lontana del padre Ruggero, e ne sia diventata la vedova, è l'antefatto. Che si sia risposata con Filippo Maria Visconti, duca di Milano, e che questi, invaghitosi della nobildonna Agnese del Maino, l'abbia fatta decapitare per il sospetto adulterio con Michele Orombelli, è in sostanza il nocciolo non solo della sua fine, il 13 settembre 1418, ma anche della trama dell'opera, ripresa da Felice Romani dall'omonima tragedia di Carlo Tedaldi Fores ( 1825), forse sull'onda delle tragedie manzoniane a sfondo storico, il Carmagnola (1820) e l'Adelchi (1822). Una trama che per certi aspetti ricorda quella di Anna Bolena (Scala, 1830), dall'altra anticipa il rapporto Eboli-Elisabetta del Don Carlos. Il raffronto poi si amplifica, se pensiamo che sia la parte di Anna, sia quella di Beatrice sono state concepite per Giuditta Pasta, in grado di mandare in visibilio le folle dell'epoca. Folle che, in visibilio, il 16 marzo 1833, proprio proprio non andarono, quando Beatrice debuttò alla Fenice, rientrando in corner nella stagione di Carnevale e Quaresima con più di un mese di ritardo per colpa in parte del librettista, in parte di un Bellini che, dopo aver optato per una Cristina di Svezia tratta da Dumas père, cambiò idea e si orientò su questo che sarebbe rimasto l'unico suo titolo storico. Bellini dovette lavorare in tutta fretta, ricorrendo anche ad autoimprestiti, o parodie per chi è pignolo. Negli anni seguenti bene o male si rifece: al Teatro Petrarca di Arezzo, ad esempio, nella stagione 1838-39, la Beatrice inaugurale si diede per ben trentacinque recite, e nella ripresa che seguì nel 1882 ne totalizzò quindici. Sia come sia, è un male che oggigiorno abbia così limitata circolazione, e non è solo parola di Vittorio Gui, che sia opera di valore.

Plauso quindi al Carlo Felice e al suo coraggio di proporre un titolo così di nicchia, per la gioia dei melomani ma anche di un pubblico piuttosto numeroso, a giudicare dalla sera del 15 marzo 2024 in occasione della prima (curiosamente, a centonovantun anni dalla prima prima, meno un giorno). L'opera, che si inserisce con la sua vicenda storica nel progetto «Genova capitale del Medioevo» 2024, non è l'unica rarità del cartellone: accanto ai doverosi omaggi pucciniani di Butterfly e Bohème, il Werther di novembre, l'Idomeneo di febbraio e Il corsaro del prossimo maggio sono indubbie ghiottonerie liriche non così comuni, e per gli amanti del Novecento e della contemporaneità c'è stato posto a inizio stagione per A midsummer night's dream di Britten ed Édith di Maurizio Fabrizio, commissionata proprio dal Carlo Felice nel 2023 per il sessantesimo anniversario della scomparsa di Édith Piaf.

Per l'occasione, Beatrice va in scena con un nuovo allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice, coprodotto con la Fondazione Teatro La Fenice di Venezia. La regia è di Italo Nunziata, in collaborazione con Danilo Rubeca. Ma, nonostante le note riportate nel programma di sala, sfugge la coesione di fondo del progetto. L'azione è spostata a fine Ottocento, come si può desumere dai costumi di Alessio Rosati; e fin qui, con l'abito da sera di Agnese, sul verde, vagamente Fortuny, e quello nero di Beatrice, con gli uomini di corte in marsina scura e gilet, col lungo cappotto nero di Filippo dai risvolti di pelliccia, si ricorre a un guardaroba piuttosto convenzionale, né lo spostamento temporale destabilizza la resa della trama. Lo spazio, delimitato per tutta la recita da basse gradinate che corrono lungo le tre pareti non sfondabili del palcoscenico, è reso astratto dalle scene di Emanuele Sinisi; la scena è per lo più vuota – solo al second'atto compaiono due lunghi tavoli per il processo –, eccetto qualche sedia e poco altro, col boschetto del giardino ducale raffigurato in un quadrato sospeso (esili e nudi tronchi in controluce nella nebbia) e il castello di Binasco stilizzato su pannelli mobili spostati a vista da comparse, sui quali spiccano fotografie di interni di chiese, archi e colonne, col primo piano di un capitello. Delle foto si deve ringraziare Ola Kolemhainen, esponente della Helsinki School of Photography – e non è un caso che alla prima fosse presente anche l'ambasciatore di Finlandia a Roma.

Ciò che però attira maggiormente lo sguardo è il grande sfondo, una parete di 7x13 quadrettoni di cemento nudo, rovinato, con un ampio squarcio sulla sinistra nel quale si incastra, calando all'inizio del Finale primo, il dagherrotipo di una figura maschile: così, al posto della statua di Facino, Beatrice si rivolge in Deh! Se mi amasti un giorno a una foto che occhieggia da un muro sbrecciato. L'interpretazione potrebbe essere quella che, nel grigio cemento della realtà quotidiana, si apre lo squarcio del ricordo di una persona amata, per la quale vale la pena combattere e morire, pur di non venir meno all'antico sentimento, stante l'aura di santificazione di cui si ammanta l'integerrima protagonista; ma onestamente, sembra anche a me che l'ho formulata un'ipotesi forzata; tanto più che l'espediente della parete di cemento con squarcio e foto viene riproposto quando durante il processo ne cala una seconda davanti alla prima, nel cui squarcio compaiono stavolta diversi busti d'uomini, forse i giurati. E non si sa più che cosa pensare.

Valerio Tiberi immerge la vicenda in una penombra che sa di cupo e stantio; la sua non è mai una luce piena, piuttosto una mezza luce, che però, a parte un caso, non brilla (è il caso di dirlo) di particolari guizzi d'inventiva, risultando piuttosto statica. Statica come le pose dei solisti, poco mobili, e soprattutto del Coro dell'Opera Carlo Felice, che, se musicalmente ha modo di farsi apprezzare, ben istruito da Claudio Marino Moretti, soprattutto negli interventi narrativi, sulla scorta di quelli donizettiani (vedasi il Come vinti da stanchezza, che riporta una vicenda fuori scena, come qui il racconto della tortura di Orombello, con l'andamento strofico da ballata), obbedisce a una regia che lo vuole per esempio o tutto compatto a fissare verso sinistra, mentre Agnese canta fuori scena, o tutto schierato in avanscena sotto i riflettori, o a fare il girotondo torno torno ai tavoli suddetti. Riassumendo, una regia innocua, con qualche scollamento tra ideazione e realizzazione e qualche incoerenza (interni di un castello come interni di una chiesa), ma che ha il pregio, se non altro, di non scardinare l'impianto drammaturgico.

Lodevole il cast, che include alcune delle più valide voci in circolazione al momento. Partiamo dal Filippo di Mattia Olivieri, che dispone di un ottimo strumento, non scurissimo nel timbro ma solido, dotato di notevole duttilità, con omogeneità di grana e padrone di un'ampia estensione, perfettamente a suo agio nei perigliosi acuti del second'atto, che esegue non lunghissimi ma tenuti senza esitazioni. L'eccessiva interpretazione irruente lo fa talvolta uscire dai binari, scalzando alcune note, ma si apprezza la buona volontà di dar vita a un villain che perde le staffe (niente che non si possa correggere alle prossime recite), mentre le doti attoriali contribuiscono a delineare il suo personaggio crudo e senza scrupoli nel mettere le mani addosso alla moglie.

Restando in ambito maschile, più articolata è la parabola prestazionale dell'Orombello di Francesco Demuro: se gli inizi appaiono un poco stentati, con una voce indecisa, bidimensionale, dal Finale primo e per tutto il second'atto è un crescendo di abilità vocali: scaldandosi, e magari entrando meglio nel ruolo, ecco arrivare flessuosità di legature, morbidezza di timbro, da tipico tenore belcantista rossiniano, potenza di suono e soprattutto una stupefacente facilità di emissione dei sovracuti nella scena del processo, che già preannunciano la tessitura dell'Arturo dei Puritani: un ruolo concepito per l'inarrivabile Rubini, quello di Arturo, mentre quello di Orombello fu pensato per Alberico Curioni, grande interprete di Rossini (ma non solo, anche di Nicolini e altri): strano che un anonimo critico inglese, che lo ascoltò a Londra nel 1826 scrisse che aveva voce «ben formata, ricca e dolce, ma limitata nell'estensione»; in ogni caso a Bellini piaceva.

A parimerito, sebbene per diversissimi esiti artistici, i due soprani: da un lato, Carmela Remigio nei panni di una Agnese forte, decisa, volitiva, e soprattutto vocalmente in stato di grazia. Il duetto con Orombello del primo atto è un'occasione per sfoderare acuti precisi e puliti, per ricorrere a quella tornitura della parola, o meglio del vocabolo, di cui è specialista, intridendone la sonorità di concretezza, curandone la pronuncia e rivestendola di eleganza canora, forte di un timbro argentino ancora limpidissimo, mentre la romanza fuori scena Ah! non pensar che pieno (formalmente un'intromissione nell'Introduzione dedicata a Filippo, se vogliamo analoga alla romanza di Violetta, pure essa fuori scena, all'inizio del Bravo di Mercadante, in mezzo alla cabaletta ripetuta di Foscari, qualche anno dopo) mette in risalto l'ariosa malia di una voce che quando vuole sa ingentilirsi. Rispetto alla recente Bolena, interpretata presso i Teatri del circuito emiliano, è una parte che affronta con molta più proprietà di mezzi; ma come per la Bolena, dove ha in passato sostenuto i ruoli sia di Anna, sia di Giovanna, per la Beatrice, nella quale debutta qui come Agnese, potrebbe un giorno verificarsi l'inversione di ruolo e interpretare Beatrice.

Beatrice che qui è interpretata invece da Angela Meade, dal peso notevolmente più drammatico, di voce ampia, sonora, vibrante e solidissima, che proprio per questo sbalordisce nei passaggi ove necessaria è la carica di forza, per esplicitare la saldezza morale del personaggio, ma che trova difficoltà nei passaggi di bravura, nei filati acuti che risultano ancora spessi di una fibra vocale resistente alle sottigliezze – quei filati acuti che una Gruberová, non per nulla insignita del Bellini d'oro a Catania, eseguiva con meravigliosa souplesse (e che si può rintracciare comodamente sul Tubo), perlomeno all'apice delle sue potenzialità. Intendiamoci: difficoltà relativa, quella di Meade, ché la tessitura è dominata senza problemi, sia quella acuta, sia soprattutto quella grave, dove esibisce timbro brunito mezzosopranile e carisma vocale da vendere. Sì, il sospetto che sia una voce troppo ingombrante per il ruolo viene, al punto che, dovendo scegliere, l'azzardo di invertire Remigio con Meade non pare neanche poi così tanto… azzardato. Ma di sicuro ci si porta a casa un'interpretazione granitica e oltremodo fiera di questa indomabile eroina romantica.

Completano il cast l'Anichino di Manuel Pierattelli e il Rizzardo di Giuliano Petrouchoff, non proprio al massimo della forma.

La direzione è affidata a Riccardo Minasi, sul podio dell'Orchestra della Casa, che segue l'edizione critica a cura di Franco Piperno. Per quanto se ne può capire, è un'esecuzione pressoché integrale, con minimi tagli in un paio di scene, adeguatamente segnalati nel libretto in grigio, e l'omissione (probabile ma non certa) di alcune ripetizioni. Laddove presenti, le ripetizioni non hanno previsto variazioni secondo la prassi dell'epoca. Direzione che non eccelle nella cura del dettaglio, in alcuni punti poco centrata e sovente soverchiante il volume dei solisti, ma in grado di garantire un controllo di fondo della macchina scenica, cavando il meglio possibile dall'espressività dei professori d'orchestra.

La recita è stata salutata da vivo entusiasmo e convintissimi applausi anche da parte di un pubblico insolitamente giovane, forse una scuola.

Christian Speranza

17/3/2024