EDITORIALE
22/4/2025
L'arte del frammento

Redento o dannato, a seconda delle declinazioni che se ne sono date, il Dottor Faust – alchimista in commercio col diavolo, ma anche pionieristico scienziato attratto dalla metafisica – è un archetipo che preesiste al gigantesco modello goethiano e le sue traduzioni in musica, spesso, hanno occhieggiato al Vate di Weimar più nominalmente che nella sostanza. L'iperromantico Berlioz sarà sensibile soprattutto al versante demoniaco, un figlio della borghesia Secondo Impero come Gounod anteporrà il lato narrativo a quello speculativo; mentre, tra tanti altri compositori che guarderanno al Faust ora come corpus unitario ora come semplici estratti (Margherita all'arcolaio di Schubert, La notte di Valpurga di Mendelssohn…), solo Schumann tenterà un'effettiva restituzione del percorso escatologico edificato da Goethe.
Il risultato, dopo una gestazione decennale, sarà una partitura d'incerta collocazione estetica (oratorio? teatro musicale sia pure antioperistico?), ma che rappresenta una dichiarazione d'intenti fin dal titolo: Szenen aus Goethes Faust è la presa d'atto che il capolavoro di Goethe può essere ricostruito dalla musica soltanto per frammenti (Szenen, appunto), in una drammaturgia tanto rapsodica quanto ellittica, basata sulla connivenza culturale del pubblico tedesco. Dove, cioè, il non raccontato viene ricostruito dalla memoria collettiva. In questa prospettiva Schumann rinuncia perfino al momento più cruciale e propedeutico della vicenda, ossia la scena del patto col diavolo. Mefistofele qui ha già svolto il suo ufficio, apparendo solo come traino della caduta di Margherita: ciò che preme a Schumann è soprattutto il “dopo” e, in primo luogo, quanto accade successivamente alla morte del protagonista, cioè la sua trasfigurazione; insomma, la seconda parte – niente affatto romanzesca e assai più concettuale – della tragedia goethiana. D'altronde, a partire dai celebrati Fragmente di Novalis, la narrazione decostruita e aforistica era un must per quel “circolo di Jena” in cui Goethe – dalla vicina Weimar – rappresentava la stella polare.
Il concerto all'Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha innanzi tutto avuto il pregio di seguire passo passo l'evoluzione drammaturgico-stilistica delle Szenen (indipendentemente dal fatto che Schumann compose il lavoro a ritroso, concludendolo con l'Ouverture). Niente bacchetta e gran lavoro di plasticità sulle mani, Daniel Harding parte con una sinfonia che – nel contrapporre la solennità dell'introduzione al movimento più mosso che segue – appare all'insegna degli equilibri formali piuttosto che dei grandi scontri drammatico-dialettici. La prima parte, poi, mostra un sostegno della vocalità e una cura del canto (soprattutto in rapporto alla Margherita del soprano Christiane Karg) con cui Harding fa intendere come sia questa l'area “operistica” della partitura, lasciando invece al prosieguo un appeal sinfonico-vocale dove l'aspetto canoro – almeno quello solistico – resta subordinato al versante strumentale. È una scelta che riflette, appunto, il progredire della drammaturgia musicale schumanniana, ma alla quale forse non è estranea anche una certa usura degli interpreti maschili. Christian Gerhaher conserva la classe del liederista di razza: tuttavia, se già nei suoi anni migliori era baritono chiaro e squisitamente lirico, oggi appare di timbratura davvero troppo opaca per fronteggiare l'orchestra di Schumann e restituire i tormenti di Faust in ogni loro intensità. Quanto al Mefistofele del veterano Falk Strukmann (ieri bassobaritono e oggi basso tout court, pur senza la necessaria rotondità di emissione), s'impone ancora per volume, risultando però assai scarnificato quanto a colore.
I momenti più preziosi Harding riesce appunto a delibarli nella seconda e terza parte, anche grazie a una risposta dell'orchestra progressivamente sempre più a fuoco (ugualmente impeccabile in tutti i suoi interventi, invece, il coro). Ecco dunque la rivisitazione shakespeariana con l'incontro tra il protagonista e Ariel, dove impressiona per nitidezza e musicalità il tenore Andrew Staples; le voci della natura affidate ai bambini, con i formidabili piccoli cantori istruiti da Claudia Morelli; tutta la riverberata parte conclusiva, in cui Gerhaher, abbandonata la vita terrena di Faust, torna – qui al meglio delle sue odierne possibilità – per modellare la ieraticità trasumanante del canto di Pater Seraphicus e il misticismo concettuale di quello del Doctor Marianus. Dunque, al netto di occasionali sfasature ritmiche e qualche opacità vocale, una serata appagante. Sarebbe insomma il caso che lo spettatore italiano si lasciasse catturare, una volta per tutte, dal “cerchio magico” di Goethe: imparando a mettere nel proprio lessico familiare anche il Faust intonato da Schumann, a fianco delle (più infedeli) trascrizioni operistiche.
Paolo Patrizi
La foto del servizio è di ANSC©Musa.
|