RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'ultimo Mahler

Due concerti di seguito per due Sinfonie mahleriane: un mini-ciclo per presentare al pubblico dell'auditorium Arturo Toscanini di Torino uno specimen del sinfonismo primonovecentesco mitteleuropeo o un focus su un sinfonista sui generis che ha fatto parlare di sé la Vienna “bene” di inizio secolo. È questo forse l'intento del secondo e terzo appuntamento della stagione in corso dell'OSN, l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, che sotto la guida del suo Direttore ospite principale Robert Trevino ha presentato la Quinta nei concerti del 2 e 3 novembre 2023 e la Decima in quelli del 9 e 10. Non la Decima che, secondo molti musicologi, consisterebbe tutta nel grande Adagio-Andante, l'unico movimento che di solito viene eseguito e l'ultimo che Mahler riuscì a portare quasi a compimento nella casetta di composizione di Carbonin Vecchia, presso Dobbiaco (dove il “quasi” significa che sull'autografo mancano, da metà in avanti, legature e altri segni d'espressione: per il resto è eseguibile), ma quella che Deryck Cooke approntò, in almeno tre versioni, tra il 1960 e il 1976 e che mira non tanto alla ricostruzione completa e attendibile del testamento sinfonico di Mahler, operazione impossibile data la frammentarietà degli appunti rimasti, quanto piuttosto all'eseguibilità di ciò che si può dedurre dagli stessi, colmando le lacune dell'orchestrazione quel tanto che suggeriscono le indicazioni di pugno del compositore (viene eseguita qui la terza versione, del 1972-75). L'operazione di Cooke, al volgere dei cento anni dalla nascita di Mahler, si configurò come pionieristica, e aprì la strada ad altre ricostruzioni, quella di Rudolf Barshai in testa, ma anche a quelle di Joe Wheeler, Clinton Carpenter, Remo Mazzetti, ecc. Prima di essa, i due movimenti ad avere circolazione erano stati soltanto il primo, il già ricordato Adagio-Andante, e il terzo, un Allegretto moderato in si bemolle minore intitolato Purgatorio che, tra tutti, era quello in maggior stato di avanzamento dopo il primo. Entrambi ebbero la première il 12 ottobre 1924 alla Staatsoper di Vienna sotto la direzione di Franz Schalk «in una versione orchestrale di Ernst Krenek [«per breve tempo marito di Anna, la figlia superstite dei Mahler» (Daniele Spini, dal programma di sala)] rivista da Berg» (Ettore Napoli, a cura di, Guida alla Musica Sinfonica). Per inciso, Berg stesso, pur interpellato da Frau Mahler, che intanto era diventata Frau Gropius, si rifiutò di completare la Decima, ritenendosi inadeguato al compito.

A parte l'Adagio-Andante, però, entrato stabilmente in repertorio, la versione di Cooke fatica ancora oggi a circolare, osteggiata da coloro che restano fedeli al dettato mahleriano e al partito del: “si esegue solo ciò che ha lasciato” (Ugo Duse negli anni '70 scriveva che «per un quinto è musica e per quattro quinti è musicologia»; Pierre Boulez, ancor più tranchant, ha ripetuto più volte che la Decima «n'existe pas»), e legittimata da coloro che sperano di trovare in essa un barlume di ciò che aveva in mente Mahler componendo la Decima, pur con tutti i dubbi sui possibili completamenti che avrebbe potuto mettere in atto (per questo lo stesso Cooke parlò di “ performing version” e non di ricostruzione). Lo scrivente deve risalire all'esecuzione del 12 dicembre 2011 all'auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto, con l'Orchestre National de France diretta da Daniele Gatti, per trovare l'ultima “Mahler-Cooke production” in terra torinese, nell'ambito di un'integrale mahleriana per il centenario della morte, 1911-2011, che coinvolse le serate di Lingotto Musica, appunto, dell'OSN, il Festival MiTo e altre istituzioni.

Plauso particolare dunque all'OSN e a Trevino per aver coraggiosamente proposto la “Decima di Mahler-Cooke”, invero raccogliendo un pubblico meno vasto di quello presente alla Quinta, che garantisce il pienone già solo con l'Adagietto. Nella Decima si respira tutt'altro clima. Immerso nella sua Hütte, tra luglio e settembre del 1910, a ridosso della prima esecuzione della monumentale Ottava (Monaco, 12/09/1910), Mahler riversa sulla carta i tormenti e le inquietudini di un'anima tradita (la relazione della moglie con Walter Gropius era venuta a galla da poco) e di un corpo già minato dalla malattia. Mi ha sempre fatto pensare il fatto che ciò che il pubblico ascoltò come ultima sua nuova creazione da lui diretta fu proprio l'Ottava, la luminosa Ottava di stupefacente quanto forzato ottimismo, quando dentro di lui Mahler era già due sinfonie avanti. Tre, con la Decima. Era, potrei dire, oltre la vita. L'addio spirituale gliel'aveva dato con la Nona. Con la Decima ci si riconcilia, ma ha paura di dirle addio veramente, indugia più che può, per trattenerla, convinto che la morte aspetterà, se deve dargli il tempo di finire la Sinfonia; ma glielo dice in modo distaccato, l'addio, contemplando il vissuto dall'alto, da lontano, eppure volendo ancora farne parte, come un fantasma che rimpianga il suo corpo e voglia ancora abbracciare qualcuno. Nel vasto Adagio introduttivo c'è tutto questo, una libera forma che non si sa più se inquadrare in una doppia variazione o altro, più simile a ciò che Joyce sperimentava in quegli anni col romanzo, fra tristaneggiamenti, avanguardie atonali e politonali e con quei tre ritorni della linea cromatica delle viole che apre il movimento (meravigliosamente eseguita da una sezione di grande compattezza e penetranza espressiva), sempre più corta e sempre più contorta, più straniante, a segnare come dei punti fermi, come delle ripartenze verso un nuovo libero corso del pensiero, che prende ogni volta una direzione diversa. Ma Trevino, lungi dal dargli una fisionomia pensosa (si veda Chailly), lo rende scorrevole, come captasse un discorso già iniziato, in medias res; lo rende fluido, seguendo questo flusso ininterrotto di idee che scorrono senza veramente fermarsi a pensare. Cosicché, anche l'acme della tensione, il dissonantissimo accordo a nove suoni che deflagra a circa tre quarti del movimento «simile a una solenne rivelazione cosmica» (D. Cooke in La musica di Mahler, Arnoldo Mondadori Editore, trad. Vittorio Patané), viene raggiunto non tragicamente e arriva come naturale conseguenza di quanto esposto prima; e non suona poi tanto catastrofico, o folgorante; viene reso come inoffensivo, pur entrando come una lama di luce nell'ombra. Ma pare sia tutto calcolato, perché la conclusione, attentamente sfumata, che rastrema a dovere tempo e sonorità, fino al fa diesis sovracuto dei violini, suona ancor più distensiva.

Dopo questo tempo, si entra nel regno del puro costrutto. O quasi. Ci si immerge a piene mani nella bassezza, e direi nella trivialità della vita di tutti i giorni. Lo Scherzo che segue, che Mahler lascia largamente incompleto e che segna solo come Schnelle Vierteln (Quarti veloci), riprende la violenza espressiva del Rondò-Burleske della Nona, ma depurata del suo pessimismo, e Trevino lo rende vivo, graffiante, o come direbbe Mahler, keck (sfacciato: agogica usata nella Quinta). C'è già nell'aria qualcosa degli Scherzi di Šostakovic (confrontare quello dell'Ottava), anche se dura poco, ma c'è anche un ritorno a quel caos organizzato che era lo Scherzo della Quinta, cui sembra alludere la conclusione con un rapido gesto discendente, «”gridato con gioia”» (Cooke, op. cit.). Tuttavia si sente che non c'è il tocco definitivo. Le cinquecentoventidue battute superstiti, con tanto di doppio, se non triplo, Trio, sono dispersive, non coagulano in una struttura architettonicamente salda, la sintassi è discontinua, ci si imbatte in sprazzi di «lucidità compositiva» (Sacchetto) alternati a sezioni di raccordo molto meno elaborate. E Trevino ha cura qui di sottolineare sia la frammentarietà, sia il repentino cambio di atmosfera, dallo Scherzo al Trio, che trapassa in un tranquillo Ländler rusticheggiante, eppure reso grazioso come un minuetto. Verso la fine, trova posto un malinconico solo di tromba che sembra ripescare un Blumine invecchiato e stanco.

Col Purgatorio si penetra nel cuore della Sinfonia, il suo movimento più breve e più inquietante, perno attorno a cui ruotano simmetricamente i due Adagi iniziale e finale e i due Scherzi mediani. Lo spirito è affine a quello dello Scherzo della Settima, del quale potrebbe essere riutilizzata l'indicazione di Schattenhaft (“ombroso, spettrale”). D'una fluidità superlativa, qui, le viole e i clarinetti dell'OSN nel formare un liquido tappeto sonoro, ripreso quasi letteralmente da Das irdische Leben, un Lied giovanile, guarda caso a contenuto luttuoso, su cui i violini incarnano quasi visivamente il brivido, con quelle loro brevi frasette nervose e il trillo finale (archi dalla prestazione sempre maiuscola, quelli dell'OSN), cui inutilmente si oppone la grazia pastorale dell'oboe di Nicola Patrussi a stemperare la tensione creata da un motto di tre sole note. Oboe che a tempo debito, e poco oltre la tromba solista, incarnano invece un riso a denti stretti, o forse un sogghigno. Trevino riesce a tendere l'atmosfera su un filo e ad allentarla, seguendo scrupolosamente i cambi d'umore del pezzo, da minore a maggiore e viceversa, in realtà interpretandoli secondo una sensibilità personale importante, data l'aridità delle indicazioni espressive; molto eloquente infine il forte, notato pesante, dei contrabbassi in chiusura, dal suono bello gonfio e cupo e dal tempo leggermente slargato, su uno sfumato di arpa e tamtam.

«Il diavolo lo danza con me»: così scrive Mahler all'inizio del quarto movimento, il secondo Scherzo, che vira da mi minore a re minore. Largamente incompleto, anche qui si sente che manca il collante, la revisione; le percussioni entrano più massicciamente in gioco, persino ripescando la ruta a scandire il tempo, come nel Finale della Sesta; eppure vi sono anche suggestioni che guardano a Dvorák, per un secondo al Cajkovskij della “Patetica”. Lo Scherzo forse più distruttivo della sua produzione, disinnescato dal fatto di non essere stato portato a termine. Trevino lo tratta anche qui fluidamente, ma stando attento a far emergere il lavoro di cesello di Cooke, più che di Mahler, sulla possibile strumentazione.

Il gran tamburo militare che apre il Finale e che lo collega senza soluzione di continuità al movimento precedente è prescritto da Mahler vollständig gedämpft, completamente coperto, in modo da ottenere un suono cupo, fondo, soffocato. Pare che abbia avuto l'ispirazione dal funerale di un pompiere a New York. E Trevino prende in parola quel completamente coperto e lo occulta alla vista, collocandolo fuori scena, sì da sorprendere il pubblico evitando di attirare la sua attenzione sul percussionista. Così, l'effetto di mannaia che piomba sui frammenti di scale che faticosamente la tuba sola cerca di ascendere, ostacolata dal ritorno del motto a tre note del Purgatorio, è ancor più raggelante, perché inaspettato. A ciò si aggiungano arpa e tamtam, già sperimentati all'inizio di Der Abschied in Das Lied von der Erde (tutte le percussioni, è da dire, in tutta la Sinfonia, sono dosate con garbo e buon gusto da Trevino, anche nei loro impieghi più violenti, secondato dalla valida sezione corrispondente dell'OSN). I tempi staccati da Trevino calcolano bene gli effetti di questa atmosfera, un'introduzione a frammenti memore di quella del Finale della Sesta che però qui schiude al suo termine non una marcia verso l'abisso, come nella “Tragica”, ma un sublime assolo di flauto che non è più di questo mondo, che ne sta vedendo altri, che sta lasciando questa terra, interpretato dal bravissimo Giampaolo Pretto, giustamente applaudito a fine concerto. Gli archi a loro volta salgono ancora: è lecito intravedere già il Morricone del Pianista sull'oceano? La via verso la fine delle sofferenze è lì a due passi, ma il ritorno della cellula a tre note la distanzia di nuovo: ha inizio l'ultima lotta, un Allegro moderato che culmina in un crollo rovinoso, col ripresentarsi dell'accordo dissonante a nove suoni del primo movimento, ancor più tragico perché sottolineato da tamtam, grancassa e rullante, parafrasi già pre-espressionista di un “urlo sinfonico” (e sarà stato lo Zeitgeist dell'epoca a far dipingere a Munch, proprio nel 1910, una delle versioni dell'Urlo), seguito dalla frase d'apertura delle viole, stavolta passata ai corni. La riapparizione di questo accordo, che nell'Adagio d'apertura non era così spaventevole, qui assume una grandezza addirittura terrorizzante, e si comprende la logica di Trevino nel trattarli differentemente. Ottima la sezione delle quattro trombe, poi, capitanate da Marco Braito, sul cui suono tenuto tutto si aggrappa, un suono volutamente aspro, penetrante, quasi fastidioso. Ma necessario. Dopo questo cataclisma, il dramma può solo dissolversi e pacificarsi salendo alle nuvole: ed ecco infatti approssimarsi la conclusione, riconquistare palmo a palmo la quiete della fine dell'Adagio-Andante iniziale, ma più in alto, in modo più totalizzante, in uno struggimento e in una Sehnsucht che le ultime battute dell'Abschied avevano già intuito, in una coda che sembra non voler finire mai, che sembra procrastinare al limite, come all'inizio, le evoluzioni di un tema che non è un tema, per prendere tempo. «Mahler sospende indefinitamente il momento dell'addio prolungandolo all'infinito»: le parole che Quirino Principe usa per Der Abschied possono applicarsi anche qui, forse con maggior pregnanza. L'ultimo respiro, l'ultimo salto di tredicesima Ai violini, con escursione dinamica dal pianissimo al fortissimo, memore dell'inizio del Finale della Nona, e poi la fine, quella vera. Consolatoria. Definitiva. Un suono di una purezza raramente raggiunta perfino dalla stessa OSN, che non ha bisogno di presentazioni quanto a rilevanza artistica, ma che qui si supera, diretta magistralmente da un Trevino che dimostra di aver interiorizzato l'ultimo lascito di Mahler. Il pubblico, commosso e partecipe, attende in rispettoso silenzio che le vibrazioni si estinguano nell'aria, prima di applaudire. Più che assistere a un concerto, si è assistito a un rito, a un funerale triste ma non tragico. Si è passati per un viaggio interiore ben più lungo degli ottanta minuti della Sinfonia. E per una volta, gli applausi, i gridolini e i bravi!, pur meritatissimi, son sembrati fuori luogo.

Christian Speranza

16/11/2023

La foto del servizio è di PiùLuce.