RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A Venezia con Mozart e Fauré

È un concerto composito, quello proposto dalla Fenice di Venezia domenica 26 febbraio 2023; non privo però di una sua logica nella scelta dei brani: un fil rouge da scoprire e seguire e da cui lasciarsi guidare. Si parte con l'Ouverture (in tutti i sensi, dato che “apre” il concerto) da Die Zauberflöte KV 620, l'ultimo lavoro in tedesco cui Mozart pose mano, il Singspiel su libretto di Schikaneder tutto simboli e allusioni, da leggere in filigrana quale elogio della massoneria. Già nell'Ouverture, benché tematicamente non collegata al resto dell'opera, i triplici accordi a piena orchestra rimandano alla simbologia trinitaria e al numero tre che ricorre nei momenti salienti della trama (e la tonalità impiegata, mi bemolle maggiore, tradizionalmente collegata all'idea di ampiezza e maestosità, porta tre bemolli nella sua armatura di chiave), mentre lo svolgimento fugato della sezione in Allegro allude alla razionalità quale strumento di salvazione contro superstizioni e ignoranza.

Sempre di Mozart viene eseguito il Concerto per pianoforte e orchestra nº20 KV 466. Scritto nel 1785 nella più feconda stagione creativa viennese, dove il Salisburghese riscuoteva successi come compositore e come esecutore nelle famose Accademie (concerti per sottoscrizione antesignani del concerto “evento musicale” modernamente inteso), il KV 466 esce dai consueti schemi mozartiani per esprimere un'inquietudine singolare, preromantica, e per la scelta della tonalità d'impianto, re minore, che non riprenderà più, almeno nei concerti pianistici. È raro che Mozart utilizzi tonalità minori, prediligendo re, sol e do – quest'ultima usata per il secondo e ultimo concerto per pianoforte in minore, il KV 491 –: e tutte le volte che sceglie il re minore, è sotteso qualcosa di mortifero: la mente corre subito al Don Giovanni e al suo sprofondare agl'inferi, e ancor più al Requiem, entrambe in re minore, ma non si dimentichi il meno frequentato Quintetto per pianoforte e archi KV 421, nato, secondo il racconto della moglie Costanze, nella notte in cui ella mise al mondo il suo primogenito, che morirà appena due mesi dopo: ancora una volta in re minore.

Il re minore accomuna anche il terzo e ultimo brano in programma, il Requiem per soprano, baritono, coro e orchestra Op.48 di Gabriel Fauré. Le somiglianze col Requiem mozartiano sono pochissime, tonalità a parte, e includono soltanto una certa esiguità strumentativa: Mozart rinuncia a tutti i legni luminosi, ad esempio; il clarinetto è usato nella sua versione grave, il corno di bassetto, per scurire il suono. Fauré richiede un organico più ampio, ma, nella sua versione finale – ché la genesi della composizione, tra il 1887 e il 1898, ha visto strumenti tolti e aggiunti a più riprese – la parsimonia con cui impiega i singoli strumenti è stupefacente: quasi ci si dimentica che siano previsti due flauti, che ci siano i timpani – la loro dinamica oscilla tra pp e mf: quasi accarezzati, mai percossi –; addirittura i violini, forza trainante di innumerevoli composizioni, vengono relegati in secondo piano, a favore di viole e violoncelli, previsti inizialmente in numero di due per tipo (mentre uno era il violino: un solista, uno), che sviluppano una scrittura a quattro parti, sostenuta dall'organo, per ottenere un suono ambrato, in penombra, da Sesto Brandeburghese. E, senza scadere in facili approssimazioni, schivo il compositore, schiva la sua musica da effetti speciali, bisogna pensare alle circostanze in cui nacque: tra il 1885 e il 1887 Fauré perse entrambi i genitori. Fu quello lo spunto per scrivere questo lavoro (un po' come Brahms con il suo Deutsche Requiem); ma anziché concentrarsi sulla terribilità della morte, i testi scelti e l'andamento generale si configurano come un tentativo di consolazione per i vivi che restano e una preghiera di eterno riposo per chi non è più: via quindi il Dies iræ, il Rex tremendæ; anche il Libera me non porta traccia dell'angoscia di cui è pervaso il suo analogo verdiano, per esempio. E poi, c'è tutto il gusto francese dell'allusione, del non detto, dello sfumato: sono gli anni di Mallarmé, di Rimbaud, di Monet…

Un Requiem anomalo, insomma, spirituale più che molti altri, da sentire oltre le note: ecco forse una chiave di lettura che lo apparenta all'Ouverture dello Zauberflöte: non è la favola in sé, è il significato extramusicale che conta.

A dirigere l'Orchestra del Teatro La Fenice è chiamato Jonathan Darlington. Un suono secco, croccante, asciutto, è quello che chiede e ottiene per l'Ouverture: ben staccati gli accordi, peraltro presi dall'Orchestra con precisione assoluta, senza la minima diacronia, e, nelle sezioni fugate, una trasparenza cristallina nell'evidenziare le entrate del soggetto, le trame e le sottotrame: musica che si ascolta con gli occhi, quasi avendo squadernata avanti a sé la partitura. Il risultato è un'esecuzione pressoché perfetta, vispa e tonica senza risultare nevrotica, ieratica senza cascami paludati, anzi, ieratica proprio in virtù del taglio direttoriale senza frange. L'ottima acustica della sala, inoltre, contribuisce non poco a far giungere un suono limpido e dorato fino all'ultima fila.

Sorprendentemente, l'impostazione direttoriale cambia con l'inizio del Concerto. Si percepisce un suono più morbido, la cristallina trasparenza dei piani sonori viene parzialmente a perdersi, trasformandosi in un amalgama sonoro più plastico, ma si conserva nei dialoghi tra solista e legni, oboe e fagotto in primis, che risultano ben scalpellati. Il dramma passa in secondo piano, la concezione è più organica, a vantaggio di una pulsante emotività ma come trattenuta, quasi per timore che esploda con eccessiva ferocia. Le agogiche sono di tradizione, senza brutte sorprese.

Davide Ranaldi, giovanissimo classe 2000, affronta il ruolo solistico con esiti interlocutori. La tecnica non manca, e balza costantemente agli occhi e alle orecchie; l'espressività c'è, benché i chiaroscuri dati dai contrasti dinamici siano poco sbalzati: in questo Mozart, è da riconoscere, non offre molti appigli, a partire dal fatto che gli strumenti su cui componeva non disponevano della gamma sonora dei moderni pianoforti (ma proprio per questo sui moderni pianoforti si dovrebbe cercare di rendere questi contrasti al meglio, scavando nel brano: i crescendo, i diminuendo, ecc.); ma tante lodevoli qualità sembrano come ancora imbozzolate nella scolasticità di un'esecuzione che non ha ancora i tratti autonomi del solista completo. Le vorticose quartine dell'Allegro iniziale sono sgranate a dovere, ogni nota è intellegibile, idem per le terzine più animate nella sezione centrale della Romanza: si tratta ora di legarle, di renderle più morbide. Sempre della Romanza si nota la buona volontà di “piallare” le note, di spianarle, come ci fosse il trattino dell' appoggiato : ma sullo spartito non c'è; e, se pedante sembra l'appunto, pedante sembra anche qua e là l'esecuzione, che in ogni caso, absit iniuria verbis, si attesta su un livello complessivo medio-alto. Si riscuote, però nel finale più energico, scattante e personale, e in un fuori programma dove il legato la fa finalmente da padrone e conferma la buona stoffa già riconosciuta da giudici assai più competenti dello scrivente: il Siciliano dalla Sonata per flauto e clavicembalo in mi bemolle maggiore BWV 1031 di Johann Sebastian Bach, nella trascrizione pianistica di Wilhelm Kempff.

Ottimamente riuscito il Requiem. Ad affiancare l'Orchestra, il Coro della Casa, istruito da Alfonso Caiani, con il soprano Hilary Cronin e il baritono Armando Noguera.

Il tocco di Darlington si rende qui ancora più lieve, capovolgendo l'impressione di direttore “toscaniniano” avuta all'inizio: eppure, essendo sempre lui, c'è da credere che abbia piegato la sua intelligenza interpretativa alle diverse esigenze dei pezzi in programma. Qui la manovra di fusione degli impasti sonori si fa più audace, e, tranne che per brevi incisi di corni e tromboni, tutto ciò che non sia viole, violoncelli e contrabbassi rimane inglobato in un timbro squisitamente sombre, illuminato in modo discreto dall'interno, come in filigrana: ma proprio così facendo, quegli incisi di corni e tromboni risuonano per contrasto come trombe del giudizio, e minacciosi e penetranti paiono essere anche i pizzicati degli archi nel Libera me.

Buona la scelta dei solisti. Hilary Cronin è voce spiccatamente lirica, e irriga di freschezza il suo Pie Jesu, gonfiando di suono le vocali più acute (Fa), e facendo della soavità la sua arma migliore; Armando Noguera si caratterizza invece per un timbro molto chiaro, tenorile, e canta di grazia il suo Libera me, sottraendo tutto ciò che di paventevole ci sia nel testo.

Meraviglioso infine il Coro, ben coeso, senza spigoli, vero protagonista del Requiem, in grado di dare opportuno corpo e sostanza ad ognuno dei sette movimenti: in rilievo soprattutto soprani e contralti, ma non da meno la compagine maschile. Svuotato da qualsivoglia pesantezza operistica, pare qui recuperare una serenità claustrale, da Messa rinascimentale; unico appunto, non sarebbe guastata un po' più di levità, un po' di incorporeità nell' In Paradisum, il brano conclusivo che oppone al re minore iniziale un sognante re maggiore, là dove la dimensione terrestre viene definitamente resa senza gravità, pronta a svaporare verso la dolcezza celeste.

A fronte di un nutrito consenso per la prima parte del concerto, dispiace constatare applausi non molto convinti e fretta per raggiungere il guardaroba (non da parte di tutti, s'intende) al termine della seconda. Forse per la natura non molto appariscente della musica di Fauré. Ma d'altro canto si sa: fa più rumore un albero che cade…

Christian Speranza

6/3/2023