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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«Cioccolatte» a Piacenza con Kunde

Il Teatro Municipale di Piacenza inaugura la stagione 2023-24 con le recite dell'Otello verdiano (nome in codice «cioccolatte», nelle lettere di Boito, almeno fin quando fu in lavorazione) di venerdì 15 e domenica 17 dicembre 2023: una coproduzione del circuito dei Teatri emiliani con l'aggiunta del Coccia di Novara e del Sociale di Rovigo, che confeziona uno spettacolo promosso a pieni voti.

Italo Nunziata, assistito da Pier Paolo Zoni, mette a punto un progetto registico piuttosto basico ma dalle idee pertinenti e puntuali, e con i meriti di essere funzionale, data la richiesta piuttosto contenuta di oggettistica di scena e risorse teatrali, e di restare fedele alla drammaturgia dell'opera, di questi tempi avis sempre più rara. Tutto ruota attorno al concetto di gelosia. Nelle sue parole sul programma di sala, precedute da citazioni di Proust e Cristina di Svezia, «La gelosia è una prigione nella quale l'individuo si rinchiude a volte da solo o a volte sospinto da qualcuno o qualcosa». Ne consegue l'idea di rendere visivamente una claustrofobia dell'anima, «uno spazio chiuso, fatto di pareti di rame ossidate dal mare o dal passare del tempo». Tali pareti, pannelli mobili color, appunto rame ossidato, frazionano lo spazio del palcoscenico adottando di volta in volta disposizioni diverse e creando un po' di movimento in una scena altrimenti statica, ma non trasmettono davvero, a parere di chi scrive, il senso di chiusura, anche quando sul letto di Desdemona se ne abbassa uno orizzontale che restringe l'inquadratura come in un obiettivo fotografico. Riescono però nell'intento di spazializzare i personaggi: protetto da un pannello, Otello è credibile nello spiare il dialogo tra Jago e Cassio, ad esempio. Il riferimento al mare pare superfluo, dato che Otello, pur iniziando con una bufera, una battaglia navale, uno scampato naufragio, non ha il mare come coprotagonista, come nei Foscari o nel Boccanegra – e nemmeno Verdi si preoccupa di infilare qua e là ritmi “marini”, né Boito riferimenti equorei. Quanto all'ambientazione storica, la tragedia «è ambientata anche per i costumi e gli oggetti negli ultimi decenni del 1800, quasi ad evidenziarne, laddove possibile, la natura di “dramma borghese”». I costumi di Artemio Cabassi prevedono Otello in completo blu scuro, proprio come Cassio, Roderigo e Montano, i cui costumi vagheggiano divise militari che poco sanno di ufficiali di marina, come in effetti risulterebbe fuori luogo, volendo imborghesire il dramma: ma allora, per coerenza, perché il rame ossidato dal mare di cui sopra? Fanno eccezione le due vesti da camera di Otello, una sul rosso, una sul grigio, e lo splendido completo da giorno color panna, incluso stiloso paletot, di Jago al second'atto. Castigati e pertinenti anche quelli di Desdemona, abiti da giorno fin de siècle, riferimento, a quanto pare, alla trasposizione cinematografica viscontiana de L'indifferente. Le scene, di Domenico Franchi, prevedono, come si diceva, oltre ai pannelli mobili, pochi oggetti: una cassetta di legno con bottiglie per innaffiare le ugole, due sedie e una scrivania con penna, calamaio e scartoffie per permettere a Otello di fingere indifferenza mentre Jago inizia a tessere la tela dopo il Credo. Vero tocco di classe è però l'accostamento cromatico, al quarto atto, tra il verde acqua delle coperte del letto, al centro, con il resto della scena vuota e nera – cui si abbina l'abito verde di Emilia –, e il bianco della veste di Desdemona, riversa sul letto come la donna dell'Incubo di Füssli, magnificamente illuminata dalle luci di Fiammetta Baldiserri, assistita da Oscar Frosio. D'impatto, e solo in apparenza scontato, il fondale a fiori mentre quest'ultima riceve l'omaggio floreale dai fanciulli: perché se le minime competenze botaniche dello scrivente non fallano, quei fiori sono papaveri, e la simbologia è il sonno della morte, già presagita.

Il côté musicale sopravanza le migliori aspettative, attestandosi su un livello difficilmente eguagliabile. Il ruolo omonimo dell'opera è sostenuto da Gregory Kunde. Dopo un Éléazar di riferimento nella Juive torinese di settembre-ottobre, lo ritrovo a dominare, alle soglie dei settant'anni, una parte di impervia difficoltà vocale (i tanto famosi do acuti non li ha Manrico ma li ha Otello, ricordiamolo): dominata sia a livello vocale, sia – e forse soprattutto – a livello psicologico-interpretativo. Non si scotomizzi che vocalmente Kunde deriva da ruoli belcantistici, ai quali ha nel tempo affiancato ruoli di ascendenza differente. La sua tecnica coniuga perciò sottigliezze e sfumature di scuola vetero-tenorile con la robustezza e il canto più “eroico” e spianato del tenore romantico: stando sul personaggio in questione, è l'unico tenore di epoca moderna ad avere in repertorio sia l'Otello di Verdi, sia quello di Rossini (riuscendo a cantarli entrambi in una stessa stagione: a ottobre 2014 quello di Verdi al Regio di Torino, a luglio 2015 quello di Rossini alla Scala), cosa registrata finora, pare, solo con Roberto Stagno (1836/40 – 1897). Il suo Otello non è quello esagitato e sopra le righe di un Del Monaco, tanto per dire (anche perché i mezzi vocali son diversi): vi è un costante e sapiente uso della mezza tinta, della mezza voce, un'esaltazione del lato intimistico del personaggio, dei suoi momenti di fragilità; il che non vuol dire ridurlo a questi soli aspetti, ma bilanciarlo con quelli più iracondi, e permettendo, soprattutto, alla voce di riposarsi e di non spingere sempre al massimo quando non serve. Anche questa è tecnica: vocale e interpretativa, che dopo decenni di approfondimento giunge a una “sua” versione del personaggio, maturata nel tempo. Ma non certo un Otello giocato al risparmio di energie: un Otello di sicuro inusuale, diverso dagli standard (e poi ancora che cos'è lo standard? Spesso è la lettura di un'epoca); ma se proviamo ad ascoltare le poche registrazioni di Francesco Tamagno, l'olotipo di Otello, l'originale voluto da Verdi, ci accorgiamo di come la voce non sia così “delmonachesca”, così spessa e scura, pur essendo, quella arrivata fino a noi, quella di un tenore in pensione. Kunde muove in tale direzione, pur conservando un tonnellaggio notevole, delineando forse un Otello che a Verdi sarebbe piaciuto. Interpretativamente dà invece un Otello meno tronfio, più sfaccettato: il suo Esultate non è enfatico, dai fiati interminabili: è ponderato, quasi come comunicasse la notizia senza troppo entusiasmo. Anche la sua seconda entrata è emblematica, con un «Son io fra i Saraceni?» più incredulo che irato. Le espressioni di forza non mancano, con un tonante «amor e gelosia vadan dispersi insieme»; ma è Già nella notte densa, in Dio, mi potevi scagliar, che la cesellatura di parola, respiro e pause raggiunge l'apice dell'espressione, assieme al Niun mi tema, meditato, declinante, stanco, dove è presente ormai solo l'uomo, non più l'eroe o l'uxoricida; e il gesto di resa che fa, consegnando la spada a Lodovico, si accorda con questa lettura. Quanto a mimica e gestualità, essa sembra valicare i confini del palcoscenico, rendendosi verosimile, talvolta un po' comica, di una comicità involontaria, come si è nella realtà, e umanizza un personaggio troppo spesso assurto a simbolo di un tipo, per quanto in parte lo sia.

Con Luca Micheletti si capisce perché Verdi volesse intitolare l'opera Jago. Micheletti non canta Jago; non lo incarna: Micheletti è Jago, senza se e senza ma; di lui offre un'interpretazione magistrale, una lezione di stile tanto come attore, quanto come professionista del canto, disponendo di voce scura ma brillante, dotata di squillo, agilità, potenza, fiato, omogeneamente a suo agio lungo le tre ottave della tessitura, piegata alle necessità della scena con indiscussa pregnanza di fraseggio. Gagliardo nel brindisi, terrificante, spietato e glaciale nel Credo, autentico manifesto di beffardo nichilismo anche senza risata conclusiva anni '50, vero genio del male che fa sua la lezione del boitiano Son lo Spirito che nega, sfrontato e ruggente, e parimenti insinuante e letteralmente perfido nei duetti con Otello, dove, nel narrare il sogno di Cassio, si produce in controllatissime emissioni in piano alleggerendo il timbro. Meraviglioso. Meraviglioso anche, si diceva, dal punto di vista attoriale, davvero convincente: il suo aspettare in scena che i bambini finiscano di omaggiare Desdemona non è un mero aspettare assiso in disparte, è un rimanere nel personaggio che medita e rumina e cospira, corrucciato come Il pensatore di Rodin, quasi sdegnato di tanti esibito buonismo. Non è un caso se, a fine secondo atto, al termine di Sì, pel ciel marmoreo giuro, all'inizio dell'intervallo, venga richiamato in proscenio, assieme a Kunde, dall'insistente applauso di una platea che non accenna ad andare al caffè. Per lo meno, è quanto accaduto alla recita del 17, di cui riferisco.

«[…] non è una donna […] è un tipo! È il tipo della bontà, della rassegnazione, del sacrifizio! Sono esseri nati per gli altri, inconsci del proprio Io». A prestar fede alla lettera di Verdi a Ricordi del 22/04/1887, potremmo arguire che Francesca Dotto abbia sbagliato del tutto nel tratteggiare la Desdemona voluta da Verdi: anziché una molle creatura remissiva, la sua è energica, volitiva, indomita, e oppone fiera resistenza al geloso marito: perfino nel terzo atto, quando Otello le intima «A terra!… e piangi!…», ella, per scelta registica, certo, ma anche per prestar fede a questa lettura, non si piega, né si accascia: resta ferma e in piedi, né Otello alza un dito su di lei, come fosse intoccabile. È una Desdemona dura, quella di Dotto, che si lascia andare non al languore ma a una dignitosissima, aristocratica meditazione nella canzone del salce e nell'Ave Maria, peraltro eseguite con delicatezza, eleganza di fraseggio e grande penetrazione psicologica. Ma a ben vedere recupera la lezione shakespeariana espunta da Boito nel primo atto della tragedia originale, dove difende il suo amore per Otello, che ha sposato in segreto, e si oppone pubblicamente (e siamo nel Cinquecento!) al padre Brabanzio. Offre quindi una lettura persuasiva, interpretativamente a suo modo in controtendenza rispetto alle “classiche” Desdemone e vocalmente benedetta da una voce solida, ampia, luminosa e soprattutto sapientemente adoperata.

Compresso da tre personalità così importanti, il Cassio di Antonio Mandrillo risulta un po' sacrificato, complice anche un ruolo in cui non può esibire al meglio la sua voce calda e di buon volume, apprezzata già in altre produzioni, ma che contribuisce qui a costruire un personaggio intenzionalmente fatuo, un po' evanescente, vittima degli eventi. Debole il Roderigo di Andrea Denti, dal volume insufficiente, mentre molto belli, rotondi e bronzei i timbri scuri di Mattia Denti (Lodovico) e Alberto Petricca (Montano). Completano il cast l'Araldo di Eugenio Maria Degiacomi e l'ottima Emilia di Carlotta Vichi, di voce sempre fresca e pulita, che ritrovo volentieri qui dopo la sua Pisana alla Fenice (ottobre 2023).

Molto bene per quanto riguarda il Coro della Casa, istruito da Corrado Casati, mentre è ancora da ricercarsi una migliore omogeneità per le Voci Bianche del Conservatorio Nicolini, dirette da Giorgio Ubaldi. Si segnala anche l'ottima ed equilibrata direzione di Leonardo Sini, sul podio dell'Orchestra dell'Emilia-Romagna Arturo Toscanini, che concerta con attenzione e stacca tempi scenicamente molto azzeccati: l'entrata in scena di Otello sul sonno di Desdemona, scandita da incisi di archi e grancassa nuda, ad esempio, riesce sostenuta e carica di tensione, trattata come la colonna sonora di un film, mentre a ritroso si ripensa a una tempesta d'apertura agitata ma non esagitata.

Con una produzione così, gli applausi hanno fatto giustamente tremare il Teatro, con ovazioni sincere, neanche a dirlo, per Kunde, Micheletti e Dotto. L'inaugurazione del Municipale, che nel 2024 festeggerà i duecentoventi anni di attività, non poteva sperare di meglio!

Christian Speranza

27/12/2023

Le foto del servizio sono di Gianni Cravedi.