RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Centosettant'anni di Traviata

Il compleanno a cifra tonda della Traviata non poteva trovare cornice migliore del teatro che la tenne a battesimo: La Fenice di Venezia. Vide la luce qui, il 6 marzo 1853, sotto maligna stella, a giudicare dal «fiascone» di quella sera; ma i dati storici dicono che, primo, l'opera non venne tolta subito dal cartellone e riscosse anche alcuni applausi; secondo, bastò apportarle pochi cambiamenti affinché l'anno seguente, sempre a Venezia ma al Teatro San Benedetto, il 6 maggio 1854, mandasse in visibilio palchi e platea. Grazie a questa “morte e risurrezione” del favor di popolo, si perpetua il mito dell'opera che rinasce dalle sue ceneri dopo un esordio sfortunato: e come non rammemorare la fenice mitologica? È ben naturale aver pensato, anche per questi destini analoghi, alla Traviata nel 2004 per la riapertura del Teatro omonimo, dopo l'incendio del '96. All'epoca venne proposta la versione originale del 1853; per la ripresa attuale si è optato invece per quella definitiva del 1854, con quei cambiamenti significativi, sì, ma non tali da far pensare, per dire, ai due Macbeth o ai due Boccanegra.

Ad essere riproposta è invece la regia di Robert Carsen, qui ripresa da Cristoph Gayral, con scene e costumi di Patrick Kinmonth, coreografie di Philippe Giraudeau e luci di Fabio Barettin. Carsen si muove nel solco delle regie che attualizzano epoche e contesti con l'intento di mettere in luce il nucleo drammatico, volendolo evidenziare in modo più esplicito dell'opera stessa. Il rischio è sempre di esagerare: deh, non parlare al misero di quell'indigesta Butterfly michielettesca ridotta a postribolo di plexiglas! La cruda verità la sappiamo tutti, là la storia del nipponico turismo sessuale, qui quella della prostituzione d'alto bordo, tanto più pungente quanto più mascherata, ammantata di inganno e buone maniere. Ma Carsen scansa il rischio con garbo, con intelligenza, affrontando il tema senza scardinarne l'impianto di base, ammodernando ma non sconvolgendo (e allora che gusto c'è, direbbero i più fanatici), limitandosi a dare più concretezza agli assi portanti della tragedia, il denaro soprattutto, e senza prendersi quelle libertà di troppo che fanno (s)cadere una regia nel delirante. Ma a ben pensarci, l'attualizzazione di Traviata è forse la più giustificabile delle trasposizioni temporali, perché è alla base della concezione verdiana del dramma. Marie Duplessis muore nel 1847; nel '48 Alexandre Dumas pubblica il suo Dame aux camélias, ricavandone la pièce l'anno successivo, che viene rappresentata nel '52. E nel '53 Verdi scrive l'opera: mai vi fu «un soggetto [più] dell'epoca» (lettera a De Sanctis, 01/01/1853), cioè della sua epoca. Lo stesso Verdi voleva, come si sa, i costumi contemporanei, salvo poi cedere a malincuore al fatto di dover spostare l'azione «nel 1700 circa» (ma senza le parrucche: su questo fu irremovibile). Retrodatare poteva essere un espediente per alzare un muro tra la denuncia sociale e la società stessa: Verdi «sa che ha infilato il suo bisturi nella carne viva della società del suo tempo, è andato al cuore del perbenismo borghese» (A. Mattioli, Meno grigi più verdi). Che poi si debba aggiornarla ai tempi moderni o lasciarla al «1850 circa», come dice il libretto (quello originale, senza la rivisitazione della censura), è lasciato all'intendimento personale. Primo atto: il salotto di Violetta è essenziale, con specchiere ai lati e un riquadro di piante e boschi sullo sfondo, forse una stampa, forse una veduta sul giardino, e la padrona di casa esordisce in uno sgargiante abito da sera rosso, di cui si libera al sopraggiungere del malore (che passa dopo un'iniezione del Dottor Grenvil), per rimanere in sottoveste nera; gli ospiti schiamazzano, bevono e si intrattengono con Flora, in abito verde come le pareti, il letto e le tovaglie dei tavolini, poi si adunano attorno a un pianoforte bianco che viene spinto in sala quando Alfredo, in giacca di pelle nera, sedutosi allo strumento, intona il brindisi: un po' Andrea Chénier ante litteram alle prese col suo Improvviso, un po' ospite speciale di uno show televisivo (ancor più ante litteram). Pare che faccia il fotografo, tra l'altro, a giudicare dalle stampe di cui omaggia Violetta al primo atto e delle foto che le scatta nel secondo. E proprio al secondo, il riquadro di piante si ingrandisce e diventa l'intero fondale del palcoscenico; il resto della scena è vuota, e si ha l'impressione che Giorgio e Violetta cantino il loro duetto in un bosco. A proposito di Giorgio, o di Germont père, se si preferisce: significativo è il suo doppio petto scuro, con cravatta e pochette rosse abbinate: l'incarnazione della diplomazia e della formalità esplicitata nell'abito, e anche l'incarnazione di ciò che in buona fede si crede di buon gusto: cravatta e pochette non vanno abbinati! E in effetti non è di buon gusto che il figlio abbia per compagna una escort, per quanto ex. Se la morale moderna ha in certi ambienti più o meno sdoganato la convivenza more uxorio, l'altro dettaglio passa difficilmente in secondo piano. Anzi, non passa. La scenografia del primo atto torna utile ora per la galleria di Flora, seconda parte del secondo atto, con l'aggiunta di tavolini e abat-jour dal design minimalista: il che, assieme al palco rialzato in fondo, spazio designato per le coreografie di cinque cowgirls e cinque cowboys con cappelli a lustrini, bikini a paillettes e pistole giocattolo – i cori delle zingarelle e dei toreri, i coristi “veri” seduti ai tavolini –, dà l'idea di un nightclub di lusso, cui contribuisce la palla stroboscopica i cui riflessi arrivano fino in fondo alla platea. Ridotta in povertà, Violetta si ritrova, nel terzo atto, in sottoveste nera, in uno spoglio cantiere edilizio, una casa ancora in costruzione: tutta la scena, tutti i dettagli, sono immersi in penombra: il trabattello al centro, su cui per un attimo si arrampica il coro quando passa il bue grasso giù in strada; lo scalone di cemento nudo in fondo; il tavolino ingombro di latte di colore su cui si appoggia il dottor Grenvil (misurazione della pressione con bracciale e stetoscopio, altra intramuscolo nel deltoide e sostanziosa parcella strappata dalle mani di Annina: altro che «il vero amico»!). E quando Violetta muore, il televisore a tubo catodico continua a non prendere, mentre dietro di lei, indifferenti ai reboanti accordi orchestrali e al dramma sulla scena, due operai si accendono una sigaretta e si avviano verso le latte di colore.

Il denaro come asse portante, si diceva. Tutte le scene chiave hanno i soldi come tema ricorrente. Al lento levarsi del sipario, Violetta, adagiata sul letto alla Paolina Bonaparte canoviana, viene pagata dai clienti: chi le porge le banconote (dollari, a occhio e croce; ma poco importa), chi gliele lancia, chi gliele conta appoggiandogliele vicino; sul «gioir» di Sempre libera, tuffa le mani in un canterano e le cava piene di banconote, che lancia per aria; altre banconote piovono come foglie d'autunno durante il duetto Giorgio-Violetta e tappezzano il pavimento del “bosco”; lo stesso Giorgio mette mano al portafogli, pagando Violetta per il suo «sagrifizio». Un ritorno quasi ossessivo, più che i richiami sessuali, limitati a una sottoveste e agli spogliarellisti western.

Alla recita del 10 settembre 2023, cui sono stato spettatore, la prima di nove, ha preso parte un cast di solido livello. Alfredo Germont è qui Piero Pretti, che ritrovo dopo averlo lasciato nei panni di Ernani, sicuramente più a suo agio in questo ruolo meno eroico e più appassionato, animato da passioni più umane, meno stucchevoli, meno da romanzo. Se inizialmente persiste qualche problema nell'emissione della voce, un po' faticata, che spinge negli acuti (mentre ben saldo è il registro centrale), superato lo scoglio del primo atto, a voce calda, è quasi tutto in discesa: la voce si arrotonda e perde buona parte delle asprezze timbriche (che permangono forse per natura della voce stessa, non certo per tecnica inadeguata), si fa potente dove serve, filata e carezzevole all'occorrenza. Lunge da lei… De' miei bollenti spiriti è resa con ottime intenzioni e notevole escursioni dinamiche, con dei pianissimi filati al limite dell'udibile, e tuttavia ben controllati: caratteristica che sfoggia in diversi altri momenti della recita. Ancor meglio nell'atto terzo, con quel Parigi, o cara rassicurante, dal tono con cui potrebbe cantare Ai nostri monti o Riposa o madre del Trovatore.

Degno di nota è il Giorgio Germont di Gabriele Vivani: un Giorgio che sa intrecciare con la Violetta di turno (e che Violetta!) un duetto di grande raffinatezza psicologica. Pur non potendosi sbilanciare in slanci estatici o in esacerbazioni parossistiche, chiuso nelle convenzioni formali che si addicono al suo ruolo (la finezza di scrittura verdiana permea questa vocalità di sfumature belcantistiche che suonavano rétro nel 1853, con infiorettature quasi galanti e linee melodiche aggraziate: proprio come rétro è il personaggio), Vivani dà vita a un Giorgio molto vivo, partecipato, superando senza problemi la difficoltà del far trasparire l'impassibilità e il (cieco) rigore morale conservando l'espressività nel canto – ed espressivo, Viviani lo è eccome. Dalla sua ha un bel timbro caldo, una voce morbida e un'apprezzabile articolazione sillabica, che informa e fa prender spessore alla parola. Peccato veniale la poca mobilità sulla scena.

E poi c'è lei. Madamigella Valery. Da un fiore all'altro, Violetta è qui Rosa: Rosa Feola. Riassumere in poche righe le prodezze di questa gola è impossibile: meravigliosa è dire poco. Il controllo della voce è ottimo, gli acuti non “bucano” e la voce resta rotonda e piena anche sopra il pentagramma, anche in quel mi bemolle acuto di fine primo atto, puntatura mai scritta da Verdi ma che, diciamocelo, disfoga le aspettative del pubblico (e lo esalta se fatto bene) e corona la «gorgheggiante follia» (Gallarati, Verdi, cap.7) di Sempre libera. Gorgheggiante follia che, si percepisce, si distingue dal decorativismo estetizzante alla Rossini per significare lo stordimento dei divertimenti: e si coglie qui l'intenzione “moralizzante” di questi gorgheggi nell'interpretazione di Rosa, l'intenzione “drammatica”; meno percepibile è invece l'intenzione opposta, quell'intenzione di vezzosità che in «solo amistade io v'offro» deve far trasparire la cortigiana che si diverte a flirtare anche con la leziosità della voce: qui viene conservata tutta la carica di quegli altri gorgheggi, un po' fuori posto, che suonano un po' “pesanti”: ma si tratta di finezze che non inficiano una prova di sicuro valore artistico. Anche perché il personaggio è sfaccettato: l'ansia di «Non sapete che colpita», la sublimità eterea di «Dite alla giovane – sì bella e pura», la funerea tristezza di «Così alla misera, – ch'è un dì caduta», lo sfogo appassionato di «Amami, Alfredo», queste e altre sfumature psicologiche trovano ragion d'essere in un approccio volta a volta ponderato e sicuro, sostenuto da un involo di voce privo di qualsivoglia manchevolezza. Vogliamo proprio trovarle un difetto? Forse l'Addio del passato cantata con troppa voce, con ancora troppa voce, che non rende al meglio la vita che si sta via via spegnendo in Violetta, ormai prossima al lumicino.

Sei il terzetto protagonista è agguerrito, non da meno è il comprimariato: convincenti la Flora Bervoix di Valeria Girardello e la Annina di Valentina Corò, molto in parte il Barone Duphol di Armando Gabba, meno convincente vocalmente il Gastone di Cristiano Olivieri; completano il cast il Dottor Grenvil di Mattia Denti, il Marchese D'Obigny di Matteo Ferrara, il Giuseppe di Cosimo D'Adamo, il Domestico di Nicola Nalesso, il Commissionario di Carlo Agostini, corroborati dal valido Coro della Casa diretto da Claudio Marino Moretti.

L'Orchestra del Teatro è guidata da Stefano Ranzani, che, a dispetto della garanzia di cui solitamente è sinonimo, stavolta conduce la compagine ad esiti interlocutori. Fin quando si tratta di dialogare col palcoscenico, non si rilevano eccessi di sorta o protagonismi inopportuni, anzi, il lavoro di concertazione è ben fatto, tanto nel bilanciamento timbrico, quanto in quello dinamico; ma è come se, privata delle voci, l'orchestra non aspettasse altro che lanciarsi a briglia sciolta: la pallida, emaciata, tisica sofferenza dei violini in apertura del Preludio, fragile come fiamma di candela al vento? No. Qui c'è un bel piano, ma un non un pianissimo; un piano senza dubbio ben eseguito e calibrato, ma ancora troppo robusto per quel che dovrebbe significare. E immancabilmente, a tutti gli avvii di arie e cabalette “alla Verdi”, ecco gli archi farsi pesanti, rudi, rimarcando in modo quasi tedesco lo zumpappà gioia dei detrattori: in un'opera in cui i richiami a valzer e ballabili sono parte integrante del discorso, del mondo dipinto in scena che canta, balla e si diverte, la leggerezza dovrebbe essere la parola d'ordine. Questo non impedisce a una gremita Fenice di tributare applausi convinti e prolungati a direttore e cantanti, con una platea quasi tutta in piedi.

Christian Speranza

17/9/2023