RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Era una notte buia e tempestosa…

Summertime, tempo d'estate? Non necessariamente, a giudicare da uno degli eventi clou del cartellone del 75° Luglio Musicale Trapanese, dedicato a uno dei vertici della storia della musica dell'Ottocento: Die Winterreise, D. 911, di Franz Schubert. Scelta raffinatissima, quella della kermesse trapanese, ma anche coraggiosa, dal momento che l'esecuzione del ciclo liederistico è sempre stato considerato un banco di prova per tutti gli interpreti che si sono cimentati con il testamento spirituale del musicista viennese, a fortiori – come nel caso in questione – se italiani, e dunque nella necessità di memorizzare l'impervia partitura. L'esecuzione, prevista nel suggestivo chiostro della Chiesa di San Domenico, nel cuore del centro storico cittadino, presentava un ulteriore elemento di sfida, dal momento che era annunciata in forma scenica. Non era la prima volta che il capolavoro schubertiano veniva sottoposto a una versione performativa: chi scrive, nel lontano autunno del 2001, ricorda ancora il fascino di una storica produzione di Robert Wilson al Théâtre du Châtelet di Parigi, con la presenza stellare di Jessye Norman, accompagnata al pianoforte da Myung-Whun Chung.

Qui la responsabilità ricadeva in toto su Danilo Coppola, giovane regista di origini trapanesi. In realtà la produzione ha subito una sorta di reductio forzata, dovuta alle avverse condizioni del tempo: il pubblico, infatti, è stato disposto sotto tre lati del portico del chiostro, mentre il quarto, prospiciente allo spazio immaginato come palcoscenico, è stato occupato dagli artisti. Certo è comprensibile la delusione di chi ha allestito lo spettacolo, ma sarebbe stato difficile immaginare condizioni più adatte: con il cielo squarciato dai bagliori di fulmini improvvisi, la pioggia a fare da lento, pulsante bordone all'esecuzione. «Der Wind spielt drinnen mit dem Herzen», il vento gioca con il cuore, canta il Wanderer, e per questo Coppola immagina tre teli di cellophane trasparente, fissati alle finestre del primo piano, che si agitano come vele, si distendono e si aggrovigliano, diventano lievi sipari dietro i quali celare i misteri dell'anima, ali sulle quali librarsi verso un futuro impossibile. Al centro del chiostro, sul piancito, rimane l'essenziale: un'interminabile distesa candida, neve che con il passare della serata si intride di «Gefrorene Tränen», lacrime di ghiaccio; e il simulacro di una casa, con gli ‘occhi' illuminati delle finestre, che è al tempo stesso quella dell'amata, quella del carbonaio, ma soprattutto l'irraggiungibile chimera, vagheggiata dal protagonista. Nelle tonalità più calde dell'ocra, in quelle più fredde del turchese e dell'ametista, le luci che accompagnano l'azione – dovute sempre al regista – si stemperano e si sublimano nel bianco gelido, imperturbabile, abbagliante del finale.

Di pregio anche l'esecuzione musicale. Ne sono valorosi protagonisti il basso Andrea Mastroni e il pianista Mattia Ometto. Mai come nel caso dei Lieder schubertiani, mai come nel caso di questa preziosa silloge il ruolo del pianoforte non è di mero accompagnamento, ma specchio, riflesso, anticipazione, commento di quanto accade. La tastiera di Ometto è una sorta di Ariel imprendibile, squaderna le forze della natura, coglie frammenti di orizzonte sonoro (il fruscio delle foglie di tiglio, i corni in lontananza, la cornetta della posta, il ringhio dei cani) e le trasfigura in un universo vivido, nitido ma al tempo stesso dolente. Un'interpretazione straordinariamente intensa, all'interno della quale è possibile cogliere in nuce tutti gli elementi che apparterranno all'universo mahleriano; ma con una sorta di pensoso, triste ripiegamento interiore, che essicca il fraseggio, restituendo tutta la fragilità, l'essenza della poetica schubertiana.

Il Wanderer, il viandante è Andrea Mastroni. Basso, anzi basso profondo. E già questo conferisce un'aura di cupa, fosca impenetrabilità a quello che – più che un personaggio – è metafora di un percorso solitario. E come il pianoforte di Ometto si premura di restituire immagini, pensieri – tutto quel mondo di fantasticherie, così caro alla temperie Biedermeier viennese; altrettanto è singolare come il cantante milanese pieghi a fini strumentali un materiale dovizioso, un panneggio vocale avvolgente, morbido, vellutato. Un retrogusto che, se da una parte restituisce la sorgiva bellezza dei Lieder, dall'altra fa comprendere come ormai tutto sia compiuto: vive solo di rimpianti la voce che si unisce a quella dell'organetto nel mesto ruotare di una manovella. Ma è, appunto, un viaggio quello che Mastroni costruisce, e che per questo prevede momenti di inatteso vitalismo: Frühlingstraum, sogno di primavera, viene cesellato con affetto, salvo trovare immediato, inesorabile pendant nella solitudine di Einsamkeit, perfino Letzte Hoffnung costruisce intorno alle ultime foglie colorate l'ultima, fallace speranza. Vestito di scuro, il viandante si aggira sotto il portico con una gestualità misurata, priva di facili effetti. Gli sono compagne solo le maestose colonne, alle quali si poggia quasi di passaggio, sostegno effimero a chi ormai manca qualunque tipo di supporto: ed è bello quando si affaccia sulla distesa di neve e, piegate le ginocchia, ne coglie il frigido calore, l'ultima presenza di vita. Tra le tante declinazioni possibili, Mastroni fa del Wanderer schubertiano una sorta di titanico eroe shakespeariano, emarginato in una solitudine senza tempo, senza appello, senza scampo. Un'interpretazione soggiogante, una vertigine ulcerante.

Giuseppe Montemagno

10/8/2023