RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Ullmann al Palladium

L'arte come forma di resistenza

Nasce in condizioni estreme L'imperatore di Atlantide (Der Kaiser von Atlantis), opera che Viktor Ullmann vergò nel ghetto di Terezín prima di essere deportato e ucciso ad Auschwitz, presentata per la prima volta a Roma al Teatro Palladium. Una meritoria produzione del Reate Festival, resa possibile dalle prestigiose collaborazioni come quella con il Progetto “Fabbrica” del Teatro dell'Opera della Capitale, che vuole riaccendere i riflettori su un titolo dalle molteplici implicazioni estetiche, politiche e morali. Per comprenderne a fondo la complessità occorre in primo luogo esaminare le circostanze della sua creazione, in un contesto concentrazionario piegato alle esigenze della propaganda, contrabbandato all'esterno come esempio di ghetto modello nel quale gli internati potessero esercitare pienamente le proprie facoltà artistiche. Un ambiente unico che, malgrado tutto, favorì una preziosa fioritura culturale. Qui l'ispirazione di Ullmann ebbe feconda accelerazione. L'imperatore di Atlantide si avvale del testo di Petr Kien, giovane artista di grande talento, il quale trovò immediata sintonia di vedute con il più maturo compositore: li accomunava l'idea che l'arte fosse una forma di resistenza alla barbarie imperante.

Come nel sodalizio Brecht/Weill, la simbiosi fra i due è totale. L'intento politico traspare sin dal titolo: Atlantide subisce una fine catastrofica a causa della brama di potere e di ricchezze che ne mina le fondamenta. Nell'ideologia nazista il mito di Atlantide era fortemente legato a quello della razza ariana. Spedizioni vennero messe in atto o programmate per scoprire il continente sommerso. Suggestioni che confluiscono nell'opera, la quale mescola sapientemente elementi fantastici ad altri fortemente realistici. Il Kaiser Overall, imperatore di Atlantide, adombra chiaramente Hitler, mentre il Tamburo rappresenta Goebbels, ministro della propaganda del Reich. Su tutto incombe la Morte che, rifiutando di assolvere al proprio ruolo di mietitrice, mette in crisi il mondo minandone l'ordine naturale. Gli sta accanto Arlecchino, figura allegorica dal pulsante vitalismo ma ridotta a uno stadio miserrimo, plurisemantica nei suoi molteplici riferimenti culturali (la maschera della Commedia dell'arte, ma anche la figura dei Tarocchi nella tradizione dell'Est Europa). Altre figure allegoriche sono il Soldato e Bubikopf, che rappresentano l'umanità irretita dalla propaganda. Il lavoro non riuscì a debuttare causa il veto delle SS, e trovò la prima incarnazione solo nel 1975. L'imperatore di Atlantide dunque, pur nella sua brevità (la durata è di un'ora scarsa), rivela complessità di enorme portata.

L'allestimento visto al Palladium rende pienamente giustizia all'opera. Scena di Michele Della Cioppa essenziale ed evocativa come si conviene, con un'impalcatura colma di ingranaggi che simboleggiano l'asservimento dell'uomo. Regia curata e teatralmente efficace di Cesare Scarton. Costumi funzionali di Anna Biagiotti, senza rinunciare all'estetica in particolare nel costume scarlatto della Morte. Sieva Borzak dirige con attenzione e duttilità espressiva i membri dell'Orchestra Roma Tre, trovandosi a proprio agio nei diversi modi proposti dalla partitura, dal Deutschlandlied distorto e inquietante del primo quadro fino alle diverse forme di danza e agli stilemi jazz dei quali si fa ampio uso, rivendicando il diritto all'esistenza della cosiddetta “musica degenerata” stigmatizzata dal nazismo. Cast affiatato. Mattia Rossi incarna con convinzione e buone doti vocali il Kaiser Overall. Ottime Marian Suleiman (Bubikopf) e Ekaterine Buachidze (il Tamburo). Ben caratterizzato l'Arlecchino di Nicola Stranero. Apprezzabile la Morte di Carlo Feola, un poco offuscato l'Altoparlante di Spartak Sharikadze, buono il Soldato di Eduardo Niave. Un'ultima notazione: all'esecuzione in lingua italiana avremmo preferito l'originale in tedesco. “Solo sopito è il fuoco, non estinto”, si dice a un certo punto; quasi un monito a vigilare in ogni epoca, perché l'ombra oscura della guerra e dell'odio incombe perenne sui destini dell'umanità.

Riccardo Cenci

11/12/2023

La foto del servizio è di Andrea Rossi.