RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il fascino della multidimensionalità

Giacinto Palmarini e Galatea Ranzi.

Esistono sostanzialmente due modi per trasformare un romanzo, anche di grandi dimensioni, in pièce teatrale: il primo, più comune e grossolano, consiste nel riassumerne la trama, spogliandola di quasi tutti i cosiddetti ponti narrativi (per intenderci, quelli che permettono all'autore di inserire le proprie riflessioni, di descrivere le emozioni dei personaggi, di muovere in avanti o indietro il tempo del racconto), sfrondandola dei personaggi secondari, affidando i turn ancillaries di echiana memoria (cioè le indicazioni psicologiche dei dialoghi), dopo averli ridotti a didascalie, essenzialmente alla mimica e alla voce degli attori, eliminando così di fatto la profondità spazio-temporale del romanzo per celare il più possibile l'origine narrativa di ciò che avviene sul palcoscenico. Il risultato è di solito un lavoro piatto e dai dialoghi ridondanti, con sfasature temporali che non riescono ad essere assorbite nemmeno dai più cervellotici marchingegni (dalle voci fuori campo alle didascalie in sovraimpressione, fino ai personaggi che raccontano se stessi impalati sul proscenio), insomma una roba che per chi ha letto la fonte originale risulta francamente indigesta, e che per chi si accosta alla sola riduzione teatrale costituisce un qualcosa di sgradevole e di perigliosa comprensione.

C'è però anche un secondo modo, solitamente più complicato per chi deve operare la riduzione teatrale, e che necessita di un approccio ben diverso: quello cioè di non nascondere, ma di evidenziare e valorizzare la fonte narrativa, ponendola di fatto in primo piano sul palcoscenico, e imperniando su di essa tutta la tecnica attoriale e l'impianto registico, affinché lo spettatore abbia sempre ben presente il romanzo originario e che da un romanzo è tratto ciò a cui sta assistendo. Va da sé che tale approccio necessita di uno sfrondamento altamente selettivo, volto a non semplificare, ma a mantenere intatta la complessità psicologica dei personaggi e le riflessioni dei protagonisti (a loro volta influenzate dalla poetica di fondo del narratore), rispettando dunque la multidimensionalità del personaggio narrativo, per sua origine molto più sfaccettato e complesso di quello teatrale. Il risultato di tale approccio è che per chi ha letto il romanzo originario la trasposizione teatrale costituirà un approfondimento e un punto di vista diverso (perché in tal caso il punto di vista dell'autore si è indissolubilmente legato a quello dello sceneggiatore), mentre per chi non lo ha letto sarà magari un fecondo spunto per accostarsi in seguito all'originale.

Questo è l'approccio scelto da Gianni Garrera e Luca De Fusco per la loro riduzione teatrale di Anna Karenina, celebre e celebrato romanzo di Lev Tolstoj, realizzato in coproduzione tra il Teatro Stabile di Catania e il Teatro Biondo di Palermo, in scena a Catania dal 3 al 12 novembre: i due autori hanno di fatto amplificato la fonte narrativa, ricostruendo la trama in modo tale che lo spettatore avesse sempre ben presente non solo di trovarsi in teatro, ma anche di assistere appunto a una riduzione e non ad un'opera originale. A tale scopo sono state usate alcune tecniche sia visive, quali didascalie su velatino atte a contrassegnare gli snodi psicologici fondamentali, sia macroproiezioni in bianco e nero di quel che accadeva sulla scena, sia vere e proprie sovraimpressioni, come nella scena del ballo che segna l'inizio della storia d'amore tra Anna e Vronskij; sul fronte attoriale invece, le riflessioni di Tolstoj, tramutate in a parte, sono state recitate talvolta dall'attore che recitava il personaggio in questione, talvolta da altri o addirittura da più attori, con un effetto a tratti polifonico atto a ricreare la sovrabbondanza di personaggi tipica dell'universo del romanzo russo. Ma l'aspetto più interessante e moderno di tale approccio è stata la recitazione, che è riuscita a far tesoro delle tecniche dello straniamento brechtiano e in genere della lezione del teatro espressionista, di cui quello didattico costituisce a nostro parere una derivazione fondamentale, segnando in tal modo uno spartiacque pressoché ostensivo dei passaggi tra i dialoghi veri e propri e i ponti narrativi cui si accennava sopra: se infatti per i dialoghi l'interpretazione appariva naturalistica, in piena linea col teatro di fine Ottocento, negli a parte la recitazione si faceva volutamente (e il fatto che fosse voluta non poteva sfuggire a uno spettatore esperto) statica, sia nel gesto che nell'uso della voce, fredda, impersonale, quasi una lettura impostata, che sulle prime poteva magari un po' infastidire, ma della quale si scorgeva via via la funzione euristica, in una rilettura drammatica e narrativa a un tempo, nella quale riuscivano a emergere sia la vicenda che le implicazione psicologiche ma, soprattutto nella seconda parte, anche la poetica moralista e intrusiva di Tolstoj, volta a destrutturare la complessità affettiva di Anna per ricostruire il kosmos borghese di fatto violato dalla carica erotica e passionale della donna.

Da sinistra: Galatea Ranzi e Debora Bernardi.

La regia di Luca De Fusco, insieme alle scene intenzionalmente scarne, quasi da quinte teatrali, e ai costumi di Marta Crisolini Malatesta, ha contribuito a tale effetto straniante, come anche le luci gelide, talvolta chirurgiche di Gigi Saccomandi, mentre le musiche di Ran Bagno punteggiavano l'azione in modo discreto, senza mai soverchiarla o impedire la perfetta ricezione dei dialoghi, irrompendo al contrario con un effetto avvolgente durante le proiezioni di Alessandro Papa.

Sul fronte attoriale, non si può non plaudire alla scelta per il ruolo eponimo di Galatea Ranzi, che ha scolpito nella voce e nel gesto la complessità affettiva e la lenta trasformazione da donna rassegnata ad amante appassionata di Anna, in una misura suprema che le ha permesso di delineare un personaggio multiforme quale lo voleva l'autore, il tutto accompagnato da una dizione di prim'ordine, sia nel registro naturalistico che in quello straniato, trovando sfumature che potessero evidenziare sia l'amore e la follia erotica, sia lo scoramento e la solitudine di Anna nei dialoghi col farisaico Karenin, interpretato da Paolo Serra, che ha saputo comunicare al pubblico tutto il borghese conformismo di un marito di convenienza, la cui tolleranza e generosità apparenti altro non sono che il trionfo di una malafede sartriana ante litteram.

Ottimo tutto il cast maschile, dal Levin campagnolo e poi disilluso di Francesco Biscione, passando per lo scanzonato ma autentico (sempre in senso sartriano) Oblonskij (Stiva) di Stefano Santospago, attore elegante dalla recitazione signorile e compassata, non priva però di tratti istrionici, per finire col Vronskij di Giacinto Palmarini, che ha saputo costruire una figura dell'amante perfettamente speculare a quella del marito tradito, dove la nostalgia per l'ordine borghese e per la carriera militare sacrificati all'amore per Anna facevano eco alle deliranti riflessioni moralistico-religiose di Karenin.

Bene anche Mersila Sokoli nel ruolo di Kitty e Giovanna Mangiù in quello di Betsy, mentre Irene Tetto ha tratteggiato una Lidija bigotta e viperina. Da segnalare infine la Dolly di Debora Bernardi, che ha saputo incarnare una cognata di Anna irreprensibilmente borghese, talvolta volutamente sopra le righe nella reazione al tradimento del marito, prestando invece tutta la sua esperienza scenica ai momenti in cui da personaggio doveva tramutarsi nella spalla della protagonista.

Giuliana Cutore

7/11/2023