RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Tre volti del Romanticismo

Parlando di Romanticismo, si dovrebbe tener presente che il modo tutto particolare di considerare la musica nel XIX secolo, di viverla, di scriverla, di fruirne, ha dato adito allo sviluppo di diverse tendenze ed esiti artistici diversi. L'accostamento dei brani presentati al concerto di martedì 25 febbraio 2014, tenutosi all'auditorium Giovanni Agnelli di Torino (Concerti del Lingotto), ha offerto una panoramica delle principali di queste correnti. Per l'occasione si è esibita la Mozarteumorchester Salzburg diretta da Mark Minkowski.

Partiamo dalla Russia del secondo Ottocento. La spontaneità della vena melodica di Cajkovskij è una magia che ha avuto, per noi, la fortuna di incarnarsi non soltanto in temi di squisito sapore russo, ma anche nostrano: è il caso del Capriccio italiano Op. 45, pot-pourri di temi e spunti melodici dal sapore tipicamente mediterraneo, frutto di un fortunato viaggio compiuto dal compositore in Italia tra il 1879 e il 1880. Una tendenza, quella di riscoprire il patrimonio musicale tradizionale e popolare, tipicamente romantica, che fa approfondire ai compositori non solo le proprie radici nazionali (le Rapsodie Ungheresi dell'ungherese Liszt), ma anche quelle di altri popoli (le Danze Ungheresi del tedesco Brahms!), benché la scoperta dell'esterofilia folklorica trovi almeno nell'Op. 108 di Beethoven un esempio precursore illustre (adattamenti di canzoni inglesi e scozzesi). Cajkovskij, ancora lontano da quei lavori di etnomusicologia che sfoceranno più tardi nelle composizioni di Bartók o di Kodály, si limita ad una piacevole, estroversa infilata di episodi di sapore italiano (un'Italia che, alle orecchie di Cajkovskij, strizza l'occhio al folklore spagnolo: d'altro canto, è interessante notare ciò che uno straniero potesse percepire dell'Italia musicale dell'epoca, ed è curioso notare come, per certi versi, alcuni modi di fare musica non siano cambiati più di tanto rispetto ad oggi). Minkowski gioca a caricare alcune sezioni dell'orchestra a scapito di altre, per sottolineare diverse espressività: artificio condivisibile in alcuni casi – nel primo e quarto episodio sono gli archi, per accentuare una certa sensualità sanguigna (e il collegamento è con la Carmen di Bizet: il tema ai violoncelli alla fine del Preludio, per esempio) – ma non in altri – nel secondo e nel quinto, dalle movenze di tarantella, le percussioni. Questo modo di fare tende talvolta a disturbare l'ascolto dell'insieme, e può essere deconcentrante. Di certo, l'effetto generale è quello di un ritmo ben scandito, ma non potrebbe essere diversamente, se si accentuano sempre comunque piatti e timpani. Nella ricapitolazione finale, dove i diversi temi presentati s'intrecciano, la direzione si fa più maestosa, e il gesto direttoriale diviene più ampio. Maggior risalto viene accordato soprattutto agli ottoni, che travolgono l'ascoltatore nella stretta conclusiva (squillando forse in maniera lievemente eccessiva).

Altro compositore che risente dell'influsso musicale del Belpaese è Mendelssohn, e nella sua Quarta Sinfonia Op. 90, soprannominata non a caso Italiana, ci lascia il suo modo di cogliere l'Italia musicale a lui contemporanea. Ma dal più equilibrato, dal più “classico” tra i compositori romantici, non potevamo che aspettarci un solo, tiepido accenno davvero esplicito al clima italiano (nel quarto movimento, Saltarello, a imitazione del ritmo di tarantella). Nel suo Concerto per violino e orchestra in mi minore Op. 64 percepiamo molto di più del suo spirito. Eccolo quindi presentato al pubblico del Lingotto dal violinista Sergej Krylov. Con questo brano abbiamo un esempio perfetto di come la tradizione classica del concerto solistico, di stampo viennese, venga presa in consegna dai Romantici e portato avanti. Ma, per un concerto d'eccezione, occorre un violino d'eccezione: lo Stradivari Scotland University, della collezione Sau-Wing Lam, attualmente suonato da Krylov su concessione della Fondazione “A. Stradivari” di Cremona. Abbiamo interpellato in merito Alessandra Barabaschi, studiosa di liutistica che ha concentrato le sue ricerche sui più importanti violini del liutaio cremonese in un importante trattato di recente pubblicazione (Antonio Stradivari, quattro volumi, 2010, Jost Thöne editore). Ecco quel che ci ha raccontato. Questo strumento appartiene al periodo più maturo di Stradivari: venne infatti eseguito nel 1734, quando la lunga vita del famoso liutaio volgeva ormai al termine. Le prime testimonianze storiche sullo Scotland University risalgono alla seconda metà del XIX secolo, quando venne venduto da un commerciante parigino al violinista dilettante inglese Heath. Lo stesso Heath rivendette poi lo strumento, nel 1873, ai fratelli Hill di Londra, che, all'epoca, ricoprivano un ruolo di primo piano nella compravendita di pregevoli strumenti ad arco. È proprio qui, nella leggendaria bottega degli Hill in Bond Street, che questo violino venne acquistato da George D. N. Neill di Drumlea, Greenock, nelle Lowlands scozzesi. Neill mantenne possesso dello strumento fino alla sua morte e diede disposizione che, in seguito al suo decesso, tutti gli strumenti musicali da lui posseduti, incluso lo Stradivari, fossero donati a un'università scozzese. Il suo desiderio venne esaudito e lo Stradivari cominciò presto ad essere identificato col nome di Scotland University. Il rettore dell'università, tuttavia, anziché conservare gli strumenti, decise di rivenderli e di istituire, col ricavato, una borsa di studio. Lo Stradivari tornò così sul mercato, e tra il 1941 e il 1972, cambiò proprietario diverse volte, spostandosi dall'Europa agli Stati Uniti, e più precisamente dalla bottega degli Hill, a Londra, a quella altrettanto prestigiosa di Rembert Wurlitzer, a New York. Furono proprio gli Hill a vendere, nel 1948, lo Stradivari al violinista newyorkese Frank Gullino, uno dei nomi più illustri che lo ha posseduto, mentre fu attraverso Wurlitzer che lo strumento trovò la sua sistemazione attuale: venne infatti acquistato nel giugno del 1972 dall'industriale cinese e violinista amatoriale Sau-Wing Lam, e fa ora parte della sua prestigiosa collezione, insieme allo Stradivari Bavarian.

Fin dall'attacco ben vibrato, la sonorità dello Stradivari è diretta e squillante. È un violino che non suona: canta. L'esecuzione, come già nel Capriccio di Cajkovskij, preme sull'indicazione molto appassionato dell'Allegro d'apertura, dorando ciascun passaggio di un afflatus coinvolgente. Al secondo tema tale afflatus illanguidisce, ma è solo un mancamento passeggero: il violino torna a guizzare come un folletto in mezzo ai boschi, che appare e scompare da dietro gli alberi di una foresta (e il paragone si crede non sia del tutto fuori luogo, trattando dello stesso autore del Sogno di una notte di mezza estate e di pagine fortemente evocative come Le Ebridi). Durante i ripetuti accenni del primo tema da parte dell'orchestra, nello sviluppo, gli arabeschi del solista accarezzano l'esecuzione degli altri strumenti senza prevalere, quasi fondendosi con essi: chiaramente un effetto voluto, laddove il solista diventa accompagnatore: al momento opportuno, infatti, Krylov torna ad essere protagonista e a balzare in primo piano. Le note affilate come rasoi nel registro sovracuto sono rese senza mai stridere, durante la cadenza, che ci è sembrata eseguita quasi come un tributo alla Ciaccona bachiana: alcuni passaggi hanno tenuto letteralmente col fiato sospeso. Apprezzabile l'accelerazione impressa da Minkowski alla coda del primo movimento, secondo le indicazioni in partitura Presto, Più Presto e Sempre più Presto. Il fagotto introduce, senza cesure, il successivo Andante in 6/8: l'orchestra è ben sottomessa al solista, che, con un ottimo vibrato, portato, potremmo dire “alla romantica”, apre nell'animo del pubblico un'oasi di cantabilità sospesa, mentre sul versante tecnico, le due voci rese da Krylov, nei passaggi polifonici, vengono ben distinte, quanto a dinamica, tra canto e accompagnamento. Se ne ricava complessivamente un senso di serenità. Ma è già tempo di tornare a vedere i guizzanti folletti dell'Allegro molto vivace conclusivo – diretto forse un po' troppo velocemente ma col giusto brio –: si tratta di una danza saltellante, con l'orchestra che punteggia festosamente il flusso di note liquide e continue del soliste, rese con impareggiabile maestria da Krylov, che nel ritornello si diverte ad evidenziare il gioco di staccato e legato a metà archetto.

Nonostante un continuo prevalere (ancora) delle percussioni su tutta l'esecuzione, cosa che ha costituito forse il dato più negativo del concerto, il pubblico non si è risparmiato negli applausi. In risposta, Krylov si è esibito in un primo encore, la Toccata e Fuga in re minore BWV 565 di Bach (probabilmente nella trascrizione di Andrew Manze o di Peter Williams), ricorrendo ad una tecnica talvolta rapsodica, improvvisativa, e dando l'impressione dell'alternanza tra ripieno e concertino, come se ricorresse a diversi registri organistici (tra l'altro, proporre una trascrizione come questa, partendo da un originale per organo, non deve deludere né scandalizzare: vi sono nello spartito dettagli tecnici grazie ai quali, secondo lo stesso Williams, sarebbe possibile affermare che la tanto famosa Toccata e Fuga per organo altro non sarebbe che una trascrizione da un precedente originale per violino! E si sa che Bach non solo era solito scrivere musica polifonica per violino, come nel caso della Fuga della Sonata BWV 1006, ma trascriveva anche la stessa musica per organo, al fine di esplicitare meglio il contrappunto delle voci: quella stessa Fuga per violino andrà infatti a costituire la Fuga BWV 539/2 per organo). All'ovazione del pubblico, fa seguito un secondo encore, il Capriccio n. 24 in la minore Op.1 di Paganini, dove davvero si rimane incantati dalle straordinarie capacità di Krylov, tanto che, per evitare un terzo richiamo sul palco, è costretto, di fronte all'applauso che riceve, a trascinare via per mano il primo violino della Mozarteumorchester.

La terza tendenza romantica è quella al favoleggiante: il fiorire di un genere come quello del poema sinfonico è un esempio eloquente del desiderio di narrazione musicale. E sebbene non si tratti proprio di un poema sinfonico, con Shéhérazade Op. 35, Rimskij-Korsakov si avvicina decisamente a questo genere, musicando quello che è forse il capolavoro dell'arte narrativa orientale: Le mille e una notte. Con un perfetto percorso circolare, il programma del concerto ci riporta, dopo la parentesi tedesca di Mendelssohn, nella Russia del secondo Ottocento, cronologicamente vicini al Capriccio di Cajkovskij: siamo infatti nel 1888. Si parte immediatamente con una fanfara degli ottoni molto minacciosa e caricata nella sonorità, in contrapposizione con la soavità delicata del violino solista accompagnato dall'arpa; Minkowski decide di dipingere a pennellate ampie e maestose la partitura di Rimskij, ma accentuando un po' troppo corni e violoncelli nel corso del primo movimento. Nel secondo si segnalano alcune attenzioni apprezzabili nella direzione, come l'esposizione del tema all'inizio, con le acciaccature ben staccate del fagotto, i pizzicati degli archi, che sottolineano l'aspetto di danza orientale, il dialogo tra violoncello solista e fiati, e il dialogo botta-e-risposta fra corni e trombe; nel terzo, colpisce la fluidità morbida delle scale del clarinetto, che ricordano le volatine finali del Notturno in do diesis minore di Chopin, mentre nel movimento conclusivo viene esaltato l'aspetto ritmico, rimarcando il rullante. Lo smalto dato dagli ottoni viene però a prevalere, fino a coprire il resto dell'orchestra, nella stretta conclusiva, dove gli archi faticano non poco ad imporsi. L'effetto finale è roboante ma freddo. Accanto agli aspetti positivi sopra citati, è da segnalare la costante presenza (ancora una volta) troppo insistita e meccanica delle percussioni. Complessivamente, Minkowski sceglie di dirigere all'insegna del pletorico, del maestoso, cosa che può certo colpire in alcuni casi, ma non in altri. Forse è per questo che, pur con tutta la maestria coloristica di Rimskij e il suo talento per l'orchestrazione, la resa fonica di Minkowski non convince, in questo caso, fino in fondo.

Christian Speranza

29/3/2014

Le foto del servizio sono di Pasquale Juzzolino.