RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

“Mi sono voluto riraccontare una favola”

Maruzza Musumeci

La Sicilia avamposto della Grecia classica, terra di miti, di naviganti, di mare e di campagne riarse dal sole, di cantastorie e di musica, dove il nuovo e l'antico lottano ancora da millenni tra di loro senza mai un vincitore: è questa l'isola che fa da sfondo al lungo racconto di Andrea Camilleri Maruzza Musumeci, storia di un femminino arcaico e possente visto attraverso gli occhi di un uomo, una storia dove le donne sono sempre più di quel che sembrano, e dove agli uomini non resta che accettarne l'ambigua diversità, chiudendo gli occhi dinanzi a quel che non riescono a comprendere nella sua pienezza. Maruzza è l'erede di una matriarcale, antichissima stirpe, così come certo lo è la gnà Pina, sensale di matrimoni, guaritrice, forse anche un po' strega, che combinerà le nozze tra Gnazio Manisco, un contadino che odia e teme il mare, tornato nell'immaginaria Vigata dopo anni trascorsi in America, e Maruzza, una bellissima donna che, come la bella Melusina, affida ai lavacri nell'acqua marina la sua diversità e la sua maliosa sensualità.

Maruzza è una sirena, come la sua decrepita catananna senza il cui assenso le nozze non si potranno celebrare? È solo una donna legata patologicamente al mare? È una donna con disturbi psichici? Gnazio Manisco non lo sa: sa però che se ne è innamorato perdutamente al solo vederne il ritratto e che, con una sensibilità rara ancora oggi tra gli uomini moderni, la accetterà per quel che è, senza indagare oltre, senza cercare di forzarne i segreti e, quando non capirà, si chiuderà in un boh rassegnato dinanzi a un mistero più grande di lui.

Da questa affascinante novella Pietro Montandon, insieme alla regista Daniela Ardini, ha tratto un intenso lavoro teatrale, andato in scena al Piccolo Teatro di Catania il 18 novembre: sulla scorta della nota finale scritta dallo stesso Camilleri, Montandon ha racchiuso la storia di Maruzza nello scrigno incantato del cunto, cosa che gli ha permesso da un lato di interpretare da solo tutti i personaggi della storia, dall'altro di affidare al cantastorie il piano specificamente narrativo del racconto, conferendo contemporaneamente alla pièce una multidimensionalità che la semplice riduzione teatrale non avrebbe consentito. Né basta: l'idea di fondo del cunto ha recuperato anche, a livello registico e scenografico, una patina di arcaico che ha trovato la sua estrinsecazione nella scena continuamente ricostruita, deasseamblata e rifunzionalizzata in base ai momenti della storia. Con l'ausilio di pochi elementi, un fazzoletto nero, una lunga striscia di pezza blu a simboleggiare il mare, un asino di legno, una sedia impagliata, un abito da sposa, l'eterno olivo saraceno, tanto caro a Camilleri, ma prima di lui a Pirandello, la scena si trasformava sotto gli occhi dello spettatore, in una mimesis continuamente cercata e guidata dall'immaginazione e dal ricordo degli armamentari cui si affidavano i cantastorie di un tempo per narrare i loro cunti nelle piazze, veri artisti di strada che di pochissimo avevano bisogno.

Ed ecco Montandon tramutarsi continuamente da cantastorie in Gnazio Manisco, nella gnà Pina, nella catananna, negli altri personaggi secondari della storia, entrando e uscendo dai ruoli con straordinaria disinvoltura, affidandone la caratterizzazione a magistrali cambi di voce, a una mimica efficacissima ma sempre attentamente controllata, con una dizione perfetta, che consentiva di cogliere ogni parola, ogni inflessione del particolarissimo, aulico siciliano di Camilleri, rispettato con cura, senza alcuna intrusione che avrebbe incrinato la patina di arcaico che l'attore invece ha saputo rendere in maniera egregia. In particolare, dalla recitazione di Montandon, dai suoi gesti, dalle inflessioni della voce, emergeva anche un altro particolare, ben presente nella narrazione di Camilleri: un profondo rispetto per la donna, una serena e amorosa accettazione della diversità di Maruzza, del suo essere altro, una creatura di confine, così come di confine è contrada Ninfa, la terra sospesa sul mare dove Gnazio Manisco si è stabilito al suo ritorno dall'America.

Un'eccellente lezione di recitazione e di regia, che dimostra ancora una volta come, se c'è il talento, si possa fare teatro, e ottimo teatro, con pochi elementi e con pochissima spesa in tempi di crisi, e che il folto pubblico intervenuto ha gradito moltissimo, tributando calorosi ed entusiastici applausi sia a Pietro Montandon che alla regista Daniela Ardini.

Giuliana Cutore

20/11/2017