RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

La riscoperta di Amleto

Di quel periodo, non breve, della storia del teatro d'opera italiano che va dalla metà dell'Ottocento all'esplosione della Giovane Scuola, oggi - Verdi a parte - restano in repertorio, se va bene, due titoli, e non certo ripresi con particolare frequenza. Il resto è per i festival di rarità, che, anch'essi, tendono a focalizzarsi su altre epoche nel definire i propri cartelloni. Tra le opere più ingiustamente dimenticate di quei decenni si situa senza dubbio Amleto, la tragedia lirica che Franco Faccio compose su libretto di Arrigo Boito nel 1865 per Genova, e ripropose, in una nuova versione, nel 1871 alla Scala. La vicenda compositiva, abbastanza parallela a quella del Mefistofele boitiano, vide, nella seconda versione, un maggior inserimento di melodia cantabile tradizionale per andare incontro alle aspettative del pubblico, e un ammorbidimento degli elementi più “scapigliati”, nonché un finale meno cruento che si allontana da Shakespeare (alla cui tragedia l'opera resta molto aderente, escludendone solo alcune scene di contorno) per adottare un epilogo simile a quello del quasi coevo Thomas. Tuttavia, al contrario di quanto avvenne all'opera di Boito, l'Amleto di Faccio raccolse un successo, quanto meno di stima, alla prima genovese, mentre fu fischiato alla Scala, inducendo il compositore a ritirarne la partitura e non approvare successive riprese. L'oblio più che secolare in cui l'opera cadde fu quindi in un certo senso voluto dallo stesso compositore - che da quel momento si dedicò alla carriera di direttore d'orchestra -, ma ciò non toglie che si trattasse di oblio immeritato e che la riscoperta della partitura colmi una grave lacuna nella conoscenza del teatro d'opera italiano del secondo Ottocento. Riscoperta avvenuta in primo luogo in America (per merito del direttore Anthony Barrese, che ha curato un'edizione della partitura e l'ha riportata in scena ad Albuquerque), quindi in Europa, al festival di Bregenz, e, infine, adesso, con un ritardo di alcuni anni dovuto alla pandemia, in Italia, al Teatro Filarmonico di Verona, città natale del compositore. Occorre precisare che l'edizione di Barrese si basa sulla versione 1871, ma, non essendosene sinora rinvenuto il finale, per l'ultimo atto ripropone la partitura del 1865, con la catastrofe che porta, a seguito del duello tra Amleto e Laerte, alla morte di tutti i protagonisti.

Per l'allestimento, la Fondazione Arena si è affidata al regista Paolo Valerio, il quale - con la collaborazione di Ezio Antonelli (scene e projection design), Silvia Bonetti (costumi) e Claudio Schmid (luci) - ha dato vita a uno spettacolo un po' statico, di ambientazione atemporale e impostazione quasi oratoriale, che nulla toglie e poco aggiunge al piacere della performance musicale; ma, come le fotografie testimoniano, non manca di creare monumentali tableau visivi. Il cast vocale (ci si riferisce alla prima rappresentazione del 22 ottobre 2023) è risultato nel complesso assai ben assortito, sia pur perfettibile (ma tutto è perfettibile a questo mondo, tanto più se si deve interpretare un'opera di notevole difficoltà che nessuno ha in repertorio); e al sottoscritto - tra i pochi presenti ad aver già ascoltato la partitura in quel di Bregenz nel 2016 - è parso migliore rispetto all'edizione austriaca, che pur si avvaleva dei Wiener Symphoniker nel golfo mistico. Sicuramente, ha giocato a favore degli interpreti veronesi il fatto di essere italiani e di dominare quindi la nostra lingua dal punto di vista prosodico e semantico. La vocalità di Amleto e Ofelia (stentoreo lui, raffinatamente cameristica lei) è per certi versi anticipatrice di quello che si sarebbe ascoltato vent'anni dopo nella coppia Otello/Desdemona di Verdi. Il primo ha trovato nel tenore Angelo Villari un interprete drammatico-spinto dotato di fibra robusta e squillo sostenuto (di colore brunito più che luminoso), con cui affronta agevolmente una tessitura impervia, e rimedia al timbro non particolarmente memorabile con una lettura viva e convincente, manifestatasi, oltre che nel monologo «Essere o non essere», nell'assolo del III atto, dove, nel confronto con la madre, emerge la lacerazione d'animo da cui il protagonista è attraversato. L'Ofelia del soprano Gilda Fiume si è distinta per i piano a fior di labbra e per il clima di spaesata mestizia con cui ha saputo rivestire la scena della follia, anche se in talune finezze sarebbe piaciuto sentire un maggiore nitore del suono e della parola. Quando i due si sono confrontati, nel duetto del II atto, è emerso appieno il contrasto tra i loro caratteri e la loro rispettiva condizione psicologica. Il baritono Damiano Salerno ha una voce imponente che gli permette di tratteggiare con efficacia la figura riprovevole del Re, e, nel passo psicologicamente più complesso (la preghiera che apre il III atto), supplisce con un fraseggio interessante a una tavolozza cromatica non particolarmente variegata. Marta Torbidoni affronta il ruolo di Gertrude (cui compete l'aria più tradizionale di tutta la partitura) con un buon temperamento che ne vivifica il carattere, anche se non è fondamentalmente un mezzosoprano, e di questo risente il registro più grave.

Tra gli altri solisti si enumera qualche tenore e una lunga schiera di bassi, che hanno coperto i rispettivi ruoli con professionalità e garantito l'ottima riuscita complessiva dello spettacolo. Meritano una menzione lo Spettro di Abramo Rosalen, voce solida e abile nelle sfumature cromatiche e dinamiche, e il Primo Becchino di Valentino Perera, perfettamente calato nei panni sarcastici di questa figura cinica e disincantata. Amleto prevede infine, al termine del II atto, una scena di teatro nel teatro nella quale gli interpreti della tragedia “di secondo grado” affrontano ruoli brevi ma nient'affatto risibili, nei quali si sono distinti il Re Gonzaga del tenore Francesco Pittari e la Regina del soprano Marianna Mappa.

La bacchetta è stata affidata a Giuseppe Grazioli, il quale, alla guida delle ottime compagini dell'Arena di Verona (tra cui si è distinto il Coro istruito da Roberto Gabbiani), ha saputo valorizzare una partitura composita - si sentono suggestioni wagneriane così come echi del Verdi di Macbeth - ma non priva di una sua coerenza drammatica, facendo risaltare i passi sinfonici (le atmosfere notturne e rarefatte dei preludi, la marcia funebre di statuaria maestosità) e assicurando la tenuta di ogni dettaglio. Il grande successo ottenuto presso il pubblico presente dimostra che questa partitura avrebbe tutte le caratteristiche per godere di uno spazio pari a quello che hanno Mefistofele e La gioconda nei cartelloni dei teatri d'opera. Si potrebbe iniziare facendo circolare la produzione veronese.

Marco Leo

16/11/2023

Le foto del servizio sono di Ennevi.