RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Il Messiah al Lingotto

Tutto il rispetto per Cajkovskij e il suo Schiaccianoci, pagina di tradizione natalizia come Una poltrona per due il ventiquattro dicembre. Tutto il rispetto per l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, che lo propone il 22 all'auditorium Arturo Toscanini di Torino. Ma il programma dell'altro grande auditorium torinese, il Giovanni Agnelli, sembra dire: se vuoi fare un concerto di Natale, fallo bene o non farlo. Rendilo biblico. E così, a dieci giorni dalla nascita del Festeggiato, il 15 dicembre 2023, Lingotto Musica propone il Messiah di Händel, HWV 56.

Il monumentale Oratorio in tre parti, per soli, coro e orchestra, vide la luce fra il 22 agosto e il 14 settembre 1741: una ventina di giorni appena per due ore e mezza di musica! Ai tempi di scrittura rapidissimi, rossinian-donizettiani, verrebbe da dire, si accompagna una fattura raffinata e una produzione pressoché tutta nuova, non frutto cioè di autoimprestiti cui il “caro Sassone” ricorreva di frequente. Vi ricorse anche stavolta, a dire il vero, ma in maniera molto limitata. Il risultato fu un lavoro che, sulla base del libretto di Charles Jennens, che rielaborò passi della Bibbia di Re Giacomo e del Book of Common Prayers, presenta la figura di Cristo prima durante e dopo il suo passaggio terreno: nella prima parte, attraverso le parole dei profeti, che ne annunciano l'avvento, e dell'evangelista Luca, che ne descrive la Natività (curiosamente dopo una Pastoral Symphony detta Pifa , ricalco della piva italiana, andamento cullante in 12/8 e lunghe note di bordone al basso); nella seconda, con passi soprattutto dei Salmi; nella terza, infine, con le Lettere di San Paolo e con l'Apocalisse, che si concentrano sul destino ultimo dell'uomo, la resurrezione e la sconfitta della morte.

Ci riprovò Liszt centotrent'anni dopo, ad affrontare lo stesso tema, col suo Christus, altro gigantesco Oratorio per soli, doppio coro e grande orchestra; con mezzi fonici simili, aveva gioco facile; ma nel Messiah händeliano, eseguito per la prima volta presso la Fishamble Street Music Hall di Dublino il 13 aprile 1742, è singolare come proprio l'esigua domanda orchestrale, in termini di organico, possa dar vita a una tale differenziata gamma di atteggiamenti, toccando in certi punti quasi la pittura musicale; l'originale prevede, oltre ai quattro solisti e al coro, archi, continuo, trombe e timpani, questi ultimi peraltro impiegati solo nel nº39, il famoso Hallelujah, che conclude la seconda parte, e nel 47, l'ultimo numero dell'Oratorio. Col tempo venne ampliato per adattarsi ad orchestre di dimensioni sempre maggiori, anche se non per mano di Händel; anche Mozart, nel 1789, ne ritoccò la strumentazione.

Nella versione eseguita al Lingotto, esso comprende, oltre a due trombe, due timpani e archi – intesi alla barocca, violini e viole –, soltanto due oboi, più organo, fagotto, contrabbasso e due violoncelli per il continuo. Lungi dai fasti di vittoriane esecuzioni mastodontiche, quindi: il Messiah del Lingotto assume una fisionomia quasi cameristica, e cameristiche sono le compagini chiamate a eseguirlo, dirette da Justin Doyle. La Akademie für Alte Musik Berlin (Akamus), prestigiosa orchestra di rilevanza mondiale, fornisce un'impeccabile esecuzione storicamente informata grazie all'uso di strumenti d'epoca, cosa evidente soprattutto nei legni e nelle trombe barocche; un complesso cui va aggiunto il RIAS Kammerchor Berlin, con cui la Akamus stringe un sodalizio artistico da decine di anni. Un coro di trenta elementi, contati dal sottoscritto. Pochi ma sufficienti; e soprattutto così ben amalgamati, lucidi e precisi, tanto nelle singole sezioni quanto nel loro insieme, nella limpidezza della loro polifonia che Händel scrive quasi sempre fugata, da farli risaltare come l'elemento migliore della serata.

Per ovvie ragioni il suono complessivo rimane quindi contenuto, e grazie a ciò è possibile apprezzare finezze diversamente non coglibili, come lo sfumato che chiude il nº20, He was despised, dove in certi punti l'organico si limita ai violini, che trillano quasi pigolando. Un suono discreto, insomma, d'innegabile pulizia ed estrema levigatezza, un suono “educato”, potremmo dire “torinese”, di quella “torinesità” che fa della riservatezza e della poca mostra di sé due dei suoi vanti, assieme alla coscienza del proprio valore che talvolta sconfina nella falsa modestia. Con questo tipo di suono si accorda la rigorosa direzione di Doyle, che propone del Messiah una lettura castigata, austera, molto compassata, che non si lascia trascinare dall'entusiasmo dei testi a sfondo esultativo, ma che anzi tende a evidenziare il lato teologico di quelli più dottrinali, al punto che i pur lodevoli – e a maggior ragione non così numerosi – sforzi dei solisti di scavare la parola, e di tornirla al meglio, risultano quasi fuori luogo. Tale paludata condotta intellettuale si estrinseca soprattutto nella prima parte, malleandosi un poco nella seconda e nella terza, dove il testo offre meglio la possibilità di scalfire un'estetica improntata all'ascetismo.

Quanto ai solisti che più hanno provato, come si diceva, a scavare la parola, essi vanno ricercati in Neal Davies, basso chiaro, tendente al baritonale, di medio volume, che riscatta qualche difficoltà nel raggiungere i gravi (mentre domina bene il registro centrale) con una convincente interpretazione dei suoi interventi – tra gli altri il nº10, The people that walked in darkness, tutto giocato sulle sonorità scure degli archi e su frasi che girano come mulinelli attorno al centro tonale di si minore, proprio come «il popolo che camminava nelle tenebre», e il nº36, Why do the nations so furiously rage together, possibile modello di “aria di furore”, marcata Allegro –, e soprattutto in Benno Schachtner, controtenore di voce calda, pastosa, rotonda e avvolgente, a giudizio di chi scrive la migliore del quartetto, che, a partire dalla sua prima Aria, But who may abide the day of His coming? (nº6), dove ha modo di dispiegare tanto il melanconico quanto il sanguign, sbalza vividamente il testo dando concretezza alle parole-chiave, raggiungendo il massimo dell'immedesimazione nel già citato nº20 e dipingendo «from shame and spitting» con vivida immediatezza, quasi indignato, mentre riesce a mantenere salda l'emissione in pianissimi filati in assolo verso la conclusione. Parimenti, fonde bene il suo timbro negli unici due duetti dell'Oratorio, il nº17, col soprano, idilliaco e intriso di dolcezza, e il nº44, col tenore, più tortuoso. Suoi partner sono Julia Doyle, buona voce, cristallina e lucente, con riflessi metallici, anche se il volume poco pronunciato la porta in generale a stringere in acuto e in Rejoice greatly, nº16, a non esprimere il carattere gioioso ed estroverso dell'Aria– penalizzata in questo dal freno a mano emozionale del Doyle direttore: si confronti la joyful interpretazione di una Jeanine De Bique, tanto per capirci –, e Alexander Sprague, adattissimo nel ruolo di tenore “recitante” e cantante, di voce omogenea, almeno nella tessitura qui esibita, e di stampo terso, che declina la sua espressività in un campionario di atteggiamenti denso di chiaroscuri; molto ben fatto, sentito e interiorizzato ad esempio il treno di brani nn 26,27,28,29, un polittico antesignano dei più moderni binomi “Scena e Aria”, o il nº38, Thou shalt break, dalle colorature ben sgranate.

“Torinese” e composto anche l'applauso del pubblico, da parte di un auditorium più pieno che vuoto e da parte di molta, se non di tutta, l'intellighenzia musicale nostrana e non.

Christian Speranza

19/12/2023

La foto del servizio è di Mattia Gaido.