RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Una prima, una Quinta e Ravel

Il quattordicesimo concerto della stagione Rai, sotto la bacchetta di Krzysztof Urbanski, è stato aperto da The Shining One, per pianoforte e orchestra, di Guillaume Connesson (1970), che all'auditorium Arturo Toscanini di Torino, giovedì 29 febbraio, in replica venerdì 1º marzo 2024, ha ricevuto il suo battesimo italiano. Una prima, al cui successo hanno contribuito Marie-Ange Nguci dalla tastiera e l'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN) dai leggii.

The Shining One nasce su commissione della Royal Scottish National Orchestra, ha avuto la sua première il 28/03/2009 alla Royal Concert Hall di Glasgow, sotto Stéphane Denève – solista, nonché dedicatario, Jean-Yves Thibaudet –, ed è ispirato a The Moon Pool (Il pozzo della luna), romanzo fantasy di Abraham Merritt (1884-1943) pubblicato nel 1918: «Il Risplendente cui allude il titolo […] è “un mostruoso, glorioso, fiammeggiante pilastro dell'eterno Male incarnato”» (Daniele Spini, dal programma di sala). Stando a queste parole, si può pensare a Lucifero (Luci-fero), agli acquerelli del Grande Drago Rosso di Blake; ma nulla di oscuro, di cupo, di inquietante risuona nella musica di Connesson, compositore francese dalla produzione vasta e variegata come le sue fonti d'ispirazione: è piuttosto una manifestazione di affermativa vitalità, dove il brulichio di idee sempre nuove accompagna l'ascoltatore fino alla chiusa improvvisa strappa-applausi. Formalmente è un concerto per pianoforte e orchestra in un movimento scandito dal canonico veloce-lento-veloce; del pari, può essere visto come un poema sinfonico con pianoforte concertante. La scrittura orchestrale dimostra grande inventiva coloristica pur in una relativa economia di mezzi, con legni e corni a coppie. Dove la fantasia timbrica spazia, invece, è nell'uso delle percussioni, varie e abbondanti. Ad una prima sezione mossa, piuttosto agitata, apparentemente senza un disegno preciso, che si apre su un incipit ostinato, ne segue una seconda più lirica, con misteriose sonorità notturne en plein air, e una terza, più coinvolgente, più mossa della prima.

Marie-Ange Nguci, pianista ventiseienne, astro ormai affermato del pianismo contemporaneo, ha modo di sfoggiare la sua tecnica a dir poco stupefacente in tutta la prima parte della serata; pur se di grande e visibile virtuosismo, The Shining One non le dà modo di ritagliarsi uno spazio tutto suo, data la scrittura integrata, altamente “concertante” del brano; è con il Concerto per pianoforte e orchestra in re maggiore per la mano sinistra di Maurice Ravel, del 1929-30, anch'esso in un solo tempo, che ha modo di mostrare tutto il suo talento, nelle cadenze che intervallano i tutti orchestrali come nelle parti in cui solista e orchestra dialogano alla pari. Commissionato a Ravel da Paul Wittgenstein, fratello maggiore del più famoso Ludwig, privato del braccio destro durante il primo conflitto mondiale, il Concerto fa parte di quella letteratura pianistica per mano sinistra cui lo stesso Wittgenstein ha dato un notevole contributo, commissionando brani anche ad altri grandi del Novecento, Prokof'ev incluso. La richiesta è impressionante, con salti e arpeggi da una parte all'altra della tastiera a ricreare l'illusione di una scrittura per due mani. A partire dall'ampia cadenza d'apertura, al brillante glissando conclusivo, si comprende come mai Nguci abbia completato i cinque anni di Master in Esecuzione pianistica… in tre. La sua tecnica prodigiosa, abbinata all'evidente sensibilità, la porta ad un'interpretazione molto espressiva in cui le sonorità liquide, traslucide, madreperlacee della sezione centrale, con quegli arpeggi “lunari” e leggeri, non sono meno affascinanti e riuscite delle masse di suono dei momenti più turgidi, tenuti sempre sotto un vigile e millimetrico controllo di fraseggio e dinamica.

E se ancora non fosse abbastanza, la mano destra, tenuta a riposo per tutto il Concerto, ha modo di incantare, assieme a quello che gli anatomisti direbbero arto controlaterale, nel lungo e impegnativo encore , raveliano anch'esso – Ondine, dove la sua già vasta tavolozza espressiva ha modo di espandersi ancor più: praticamente non un fuori programma ma una sua parte integrante! E se Paganini non ripeteva, non ripete neanche Marie-Ange: Ondine giovedì, la Toccata dai Sei Studi Op.111 di Saint-Saëns, basata sul finale del Quinto Concerto Op.103, venerdì. Anche questa eseguita con espressività e perizia tecnica formidabili e anche questa applauditissima.

Tutta dedicata a Šostakovic e alla sua Quinta Sinfonia in re minore Op.47 la seconda parte del concerto. La “risposta pratica ad una giusta critica”, come l'autore definì, non senza una buona dose di ironia, la composizione che lo avrebbe riabilitato agli occhi del Partito, dopo una Quarta troppo sperimentale e una Lady Macbeth offensiva per i raffinati gusti di Baffone, risale al 1937 e venne accolta molto bene, grazie anche a un linguaggio più semplice, più comprensibile: quattro movimenti come da tradizione, il primo più cupo, poi un Allegretto con funzione di Scherzo, un Largo lirico e pensoso, il gran finale trionfante che eclissa l'oscurità dell'inizio. Un percorso dal buio alla luce, sulla scia della Quinta beethoveniana.

Detta così, niente di più classico. Anche l'orchestrazione rifugge dai gigantismi della Quarta, pur attestandosi sulle dimensioni dell'orchestra tardoromantica; eppure, Šostakovic non sarebbe Šostakovic senza le sue alzate di genio, il suo pungente sarcasmo e le sue raffinatezze timbriche e strumentali. Il punto è che tutte queste caratteristiche devono parlare attraverso la pagina a un direttore capace di tradurle in un suono organizzato attraverso un dialogo con essa: citando Cechov: «I libri sono le note, mentre la conversazione è il canto». Il libro in questo caso è la partitura. E di note si parla, ma di note “dolenti” per la direzione di Urbanski. Per Connesson e Ravel, essa non presenta particolari intoppi (ma neanche troppo acume interpretativo): direzione di buon livello, intendiamoci, con un adeguato bilanciamento con la parte solistica e il giusto rilievo ai “soli” strumentali; una “tenuta” dell'orchestra non troppo compatta, ma valida; lo scavo di bulino è buono fintantoché l'organico si mantiene su dimensioni moderate, a un livello al quale un'orchestra come questa, di comprovato valore e in gran spolvero nelle sere in esame, potrebbe anche dirigersi da sola; le difficoltà insorgono quando si tratta di equilibrare i complessi strati sonori dei pieni orchestrali di Šostakovic. Il meglio diretto risulta il Largo, che riesce a respirare nei suoi temi pensati quasi per la voce umana. Sufficientemente rude e pesante l'attacco dell'Allegretto, che ammicca allo Scherzo, al Ländler e al valzer, pur non aderendo a nessuno dei tre – se non formalmente al primo –; quando però si tratta di scandire, ad esempio il passaggio più rustico, affidato prevedibilmente alla sonorità boschereccia dei corni (cfr. batt. 75 e sgg.), eccolo sovraccaricare i timpani di una percussività quasi molesta (a onor del vero, ai quattro corni segnati in ff, dei quali solo primo e terzo intonano il tema, rispondono due fagotti, timpani, violoncelli e contrabbassi, tutti del pari in ff …). Il parossismo si raggiunge nei due movimenti liminari, il primo e l'ultimo. Soprattutto nel primo, si perdono gran parte degli intrecci e delle sovrapposizioni dei temi, marcati >; dove però lo sviluppo sfocia in un aperto movimento di marcia (batt. 188 e sgg.), ecco il rullante e i timpani, col loro volutamente banalizzante salto di quarta, emergere quasi più del timbro acido delle tre trombe (stavolta invece l'indicazione è chiara: trombe ff, percussioni f ). Stesso discorso per lo xilofono. Apoteosi dell'andamento percussivo, il Finale. Ma più che questo, il Finale si presenta problematico per il tipo di tempo da tenere, specialmente per l'attacco iniziale. Un tempo difficilissimo da staccare, perché di fatto ha da cambiare ogni poche battute ma in modo impercettibile. Urbanski decide di renderlo piuttosto lento, pesante, e di tenerlo metronomicamente ineccepibile (stessa pesantezza avvertita nel finale del Concerto di Ravel), ma questo impaccia l'andamento ove esso reclama d'essere più corrivo.

Da tutto questo si avverte in sostanza uno scollamento tra le intenzioni del direttore e la condotta dell'orchestra; riprendendo il Cechov di prima, è come se fosse mancato il dialogo alle prove. L'orchestra suona magnificamente, ma non si sente un polso a regolarla. E più che i rapporti tra i volumi sonori, più le scelte dinamiche o agogiche, personali e opinabili, manca in taluni passaggi un'articolazione coesa di fondo. Ma si badi: la direzione è un conto, l'orchestra è un altro. E su questa, si ha di fronte una compagine in gran spolvero, come si diceva, nelle sue sezioni come nei suoi assoli: particolarmente applaudito Alessandro Milani, violino primo di spalla interprete di un ottimo solo nell'Allegretto (batt. 86 e sgg.), ironico e graffiante, contraltare del corrispondente solo nella Quarta di Mahler (e la Quinta di Šostakovic è intrisa di ”mahlerianesimo”), Alberto Barletta (primo flauto), Nicola Patrussi (primo oboe), Franco Tangari (corno inglese) e Luca Milani (primo clarinetto).

Il pubblico a fine concerto si dimostra entusiasta anche nella sua frangia più giovane, probabilmente scolaresche, che applaude molto a lungo e richiama Urbanski diverse volte sul podio. La Quinta è pur sempre la Quinta.

Christian Speranza

4/3/2024

Le foto del servizio sono di PiùLuce/OSN Rai.