RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«Fidando in Lui»… a Fidenza

«Il Nabucco è l'esempio supremo del trionfo del tutto sulle parti. Alcuni pezzi singoli sono in sé pregevoli, altri sono anodini e uno o due brutti». Così. Lapidario. Poi prova a risollevarne le sorti: «Tuttavia la freschezza della visione d'assieme è senza riscontri». Grazie tante… A scrivere non è un miope critico dell'epoca, quando la terza opera di Verdi venne data in prima assoluta il 9 marzo 1842 alla Scala di Milano: è Julian Budden nel suo monumentale Le opere di Verdi. E se si può concordare sul fatto che la musicabilità di questo soggetto sarebbe stata messa in discussione negli anni a seguire da Verdi stesso, come dichiarò più tardi ad Antonio Somma (questione di fluidità di scene, probabilmente, di gradualità e credibilità di transizioni: i libretti di Solera spiccano per essere concepiti a blocchi, a istantanee, a scene chiuse, un po' troppo artificiosi), nulla può eccepirsi per la musica, bella e coinvolgente ai massimi livelli, quale ancora non era uscita dalla penna del Bussetano. Come ebbe a dire Šostakovic in una lettera a Isaac Glikman (1955): «Un grande brano musicale è bello a prescindere da come viene eseguito. […] La musica dovrebbe essere scritta così, così che nessuno, per quando filisteo, possa rovinarla».

Quando poi un brano, in questo caso un'opera bella in sé, viene interpretata in maniera eccellente, l'apoteosi è certa e l'applausometro sale alle stelle. È quanto accaduto al Nabucco andato in scena al Teatro Girolamo Magnani di Fidenza giovedì 28 settembre 2023 nell'ambito del Festival Verdi di Parma, prima delle due esecuzioni in cartellone (replica venerdì 6 ottobre). Anzi, no: “andato in scena” non è appropriato. La qualità di voci e direzione non ha fatto per nulla rimpiangere l'assenza di scene e costumi, data l'esecuzione oratoriale, anzi, dell'apparato scenico non si è sentita la benché minima mancanza, sopperendo ad esso la mimica degli interpreti, e, come ripeto, la validità dell'esecuzione. Del resto, forse come forma di protesta, agli scempi registici sempre più dilanianti e dilaganti, potrebbero opporsi sempre più esecuzioni oratoriali, se fossero tutte di questa levatura.

A proposito di mimica, si parta da quella seria e accigliata di… Marko Mimica, appunto (ça va sans dire …). Anzi, si parta dalla sua voce, bronzea e tonante, quella che gli inglesi definirebbero astonishing , capace di scolpire uno Zaccaria poderoso, robusto, monolitico nelle sue risoluzioni (gran pontefice degli Ebrei, ma in grado di puntare il pugnale alla gola di Fenena per ben tre volte!) e nella sua fede incrollabile nell'Eterno. Il registro centrale gli permette di sfoggiare il meglio quanto a tornitura, potenza e fiato, tutti notevoli, ma le frequenti puntate all'acuto sono del pari sicure e risolte senza difficoltà: memorabile in Come notte a sol fulgente, straordinario nel sovrastare il coro nel Finale terzo («Niuna pietra ove sorse l'altiera / Babilonia allo stranio dirà»)… e non sono che esempi. Se è poco più esile quando si tratta di affondare nel registro grave, tale veniale manchevolezza è ben compensata dai piano e dai diminuendo (uno veramente ben fatto) in cui raffrena lo strumento nei più raccolti accenti di Vieni, o Levita!, che fa terminare con un'ampia arcata vocale ben sostenuta.

Il bulgaro Vladimir Stoyanov infonde al suo Nabucco insolita baldanza e vitalità; la sua ottima voce, dal timbro baciato da Euterpe, baritonale sì, ma con tinte qua e là tenorili, unita a corde d'acciaio, gli permette di osare acuti proibitivi e ciononostante eseguiti con agguerrita padronanza tecnica: boato di applausi per O prodi miei, la cabaletta con cui termina Son pur queste mie membra… Dio di Giuda, al termine della quale decide di lanciarsi sul la bemolle acuto, audace puntatura non prevista da Verdi, ma elettrizzante quando ben fatta (e invero qui un tantino crescente, a rigor di cronaca). Basterebbe questa scena per validare Stoyanov su tutti i fronti: il patetico, il serio, il drammatico, l'eroico: intenti che attraversa durante l'intera opera con appropriatezza di mezzi e di stile, e qui condensati fino alla cannonata finale così travolgente che, si capiva dal suo atteggiamento, non vedeva l'ora di sparare.

Restiamo sul côté maschile per lodare il timbro luminoso e solare, lo squillo moderato ma piacevole, il fraseggio e il portamento segnatamente lirico di Marco Ciaponi, a cui il ruolo di Ismaele riesce preciso ed equilibrato, cucito sulle sue doti. Altrettanto si dica per la Fenena di Caterina Piva, dalla voce calda, rotonda, di grana omogenea in tutti i registri e duttile nei passaggi più melismatici. Anche per lei “lirico” è l'aggettivo che vale più di mille parole: lirismo che ha modo di esplicitare mirabilmente in Oh dischiuso è il firmamento, eseguita… come Dio comanda (impossibile non notare la somiglianza di situazione di lessico con la Giovanna d'arco, pure di Solera: «Oh dischiuso è il firmamento! / Al Signor lo spirto anela… / Ei m'arride, e cento e cento / gaudii eterni a me disvela!»; «S'apre il cielo… Discende Maria / che parlarmi solea dalla balza… / mi sorride… mi addita una via… / Par che accenni che seco mi vuol»).

Agguerrita, incandescente, solidissima, tetragona: Marta Torbidoni conquista dalla prima nota e tiene avvinti fino all'ultima, dando vita a un'Abigaille che ha nella Dimitrova dei tempi d'oro un adeguato paragone quanto a enfasi e virulenza. Non è la prima volta che incarna il ruolo, ma dal 2022, quando vi debuttò in una produzione allo Staatstheater di Mainz, ha avuto modo di interiorizzarlo e dominarlo: e dico proprio “dominarlo”, perché un ruolo così ardito, se non lo domini, ti domina lui (o ti ammazza). Sorprendente come riesca ad essere a suo agio sopra (molto sopra) e sotto il pentagramma e come raggiunga i due estremi, in quegli improvvisi, impervi e frequenti salti “di furore”, con facilità e naturalezza. E non sono passate inosservate le variazioni messe in campo nella ripetizione di Salgo già del trono aurato, filologicamente apprezzabili (nota a margine: tutte le cabalette sono sempre state ripetute, ma solo lei ne ha variata una). Insomma, talento da vendere accompagnato a una vocalità di ampio volume, specialmente nel registro centrale e acuto, scura, ambrata, di notevole peso specifico e che si aggiudica la palma della migliore del cast. Cast corroborato efficacemente da un trio di comprimari validissimi anch'essi: il Gran Sacerdote di Belo di Lorenzo Mazzucchelli, timbricamente affine a Marko Mimica, il lucente e squillante Abdallo di Marco Miglietta e la suadente Anna di Lei Wu, allieva dell'Accademia Verdiana.

Il Coro del Teatro Regio di Parma, istruito da Martino Faggiani, dà prova di notevole coesione e unità d'intenti, non solo nel Va', pensiero, eseguito peraltro con sentimento e meditazione, con tempi e attacchi larghi, placidi, ma in tutti i suoi interventi: da Gli arredi festivi al più difficile Immenso Jeovha, a cappella. Spiace constatare, però, che la cornice entro cui si è esibito, il Magnani di Fidenza, ha distorto la percezione del suono, dandogli un che di rimbombante, di reboante, forse a causa di una camera acustica troppo piccola per la massa corale (da notare anche l'assenza di sipario, che se non altro sarebbe stato un elemento fonoassorbente). O per lo meno, è ciò che si è percepito dalla terza fila.

Alla stessa difficoltà soggiace l'orchestra, la Filarmonica Arturo Toscanini, benché in minor misura. La buca d'orchestra, impossibilitata a contenere tutti gli strumenti, ha dovuto estromettere l'arpa e la coppia grancassa/piatti, dislocati rispettivamente nei palchi di proscenio di sinistra e di destra, e il tamburo, dietro le quinte. L'effetto di avvicinamento di Nabucco, solitamente reso con la sua marcia d'entrata suonata fuori scena, è così sfumato, non essendoci un “fuori scena”, ma l'insieme dell'esecuzione non ha risentito dello spazio ristretto. Anzi, Giampaolo Bisanti, dal podio, ha avuto cura di calibrare piuttosto bene la resa sonora, fedele al principio che una direzione efficace deve tenere conto anche del luogo ove si esegue un pezzo (vedi le lezioni di fenomenologia della musica di Celibidache). Ne esce una concertazione molto ben equilibrata, un amalgama sonoro senza asprezze timbriche ma non esente da sottolineature accattivanti dei ricami sonori previsti dall'orchestrazione di Verdi, e di volume adeguato a scena e cantanti. I tempi, non dilatati oltre il consueto, hanno subito saltuariamente accelerazioni e decelerazioni improvvise, stilisticamente ancora accettabili ma talvolta forse un poco fuori luogo. Ciò non ha impedito alla serata di potersi considerare un vero e proprio successo.

Christian Speranza

30/9/2023

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.