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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'estremo Puccini a Piacenza

Come ogni teatro italiano che si rispetti, nell'anno pucciniano anche il Municipale di Piacenza rende omaggio all'illustre Lucchese: dopo Otello e Anna Bolena, è la volta di Turandot. Due come al solito le date ufficiali, venerdì 22 e domenica 24 marzo 2024. Si riferirà della prima.

La produzione di Giuseppe Frigeni per la quale si opta, curatore di regia, coreografia, scene e luci, nacque nel 2003 per il Comunale di Modena. Qui viene ripreso da Marina Frigeni, che collabora per la parte registica e coreografica e che è impegnata anche fisicamente in scena come ballerina.

Caratteristica dell'allestimento, coprodotto dai Teatri dell'Emilia-Romagna (oltre a Modena sono coinvolte anche Ravenna e Rimini, dove verrà portato in tournée), è una sostanziale stilizzazione delle linee, in una Cina fiabesca più evocata che riprodotta: astratta, irrigidita e fredda come se il gelo della principessa si irradiasse su tutto. All'entrata in sala, spicca un grande carattere cinese rosso su un telo nero che occulta il palcoscenico (anche più avanti su stendardi rettangolari bianchi). Interpellate persone madrelingua, il carattere corrisponde a Quan, «cane» in senso poetico/scientifico. Quale sia il nesso con l'opera sfugge, ma potrebbe essere soltanto un fattore estetico. Dietro il telo, in trasparenza, le guardie imperiali, già schierate, agitano e roteano alabarde simili alla foglia bilobata del ginkgo, pronte a respingere il popolo, ovvero il coro, peraltro privato di quasi tutta la libertà di movimento, relegato, pressoché invisibile, in due angustissimi spazi sotto cinque grosse travi orizzontali scure ai lati di una scalinata larga e bassa che occupa si può dire tutto il palco e su cui si muovono i protagonisti. Una serie di pannelli rettangolari neri fanno da sfondo, e scorrono qui o là, secondo, a delimitare squarci di luce in un palco in cui predomina il nero. Non mancano particolari macabri, per quanto filtrati da una voluta inverosimiglianza (e per fortuna), come la salma del Principe di Persia (dato già per morto prima della decapitazione) adagiata su un tavolaccio sospeso da catene, e calve teste rosa piantate nel terreno e rivolte di spalle, forse riferimento all'esercito di terracotta dell'imperatore Qin Shi Huang, quando la parte centrale della scalinata arretra. Elemento ricorrente della scenografia è un cerchio stilizzato inscritto in un quadrato nero, che volta a volta funge da luna, quando viene traslato in alto, o da gong quando è per terra.

La freddezza si traduce nei personaggi sotto forma di una generale mancanza di interazione, con movimenti stereotipati e il ricorso al freezing. Alcuni esempi chiariranno. L'entrata di Timur e Liù da una quinta di destra – impossibile farli emergere dalla folla, confinata ove s'è detto (e per inciso resa anonima da vestaglie color petrolio tutte uguali, sorta di comunismo cromatico ante litteram), – non è seguita da nessuna caduta dell'anziano padre, scalzo e vestito d'una sucida tunica grigia (i costumi sono di Amélie Haas, assistita da Andrea Grazia), che si limita ad appoggiarsi al bastone: e va perso così quel geniale colpo di scena “cinematografico” della musica di Puccini come se inquadrasse il loro fuoriuscire dalla massa e portarsi in primo piano. Calaf, il figlio, in trench di pelle nero (in Cina al tempo delle favole?), lo riconosce dalla parte opposta del palco ma non gli si accosta. E come può stringersi a lui, poco dopo, così distante? Sono quelle incongruenze che cozzano con il libretto e che scollano l'azione dalle parole. Non scritti ma pertinenti, invece, si salvano un paio di simbolismi, lo scioglimento del ghiaccio di Turandot con Calaf che la spoglia del kimono bianco, come se finalmente le facesse deporre la corazza in cui s'era protetta, e il trionfo finale celebrato con alla base, in uno spazio sotto la scalinata, il corpo disteso di Liù, che dopo il suicidio resta in scena; nella credenza indù, l'elefante che sostiene il mondo poggia a sua volta su una piccola tartaruga: così il lieto fine è sostenuto, sembra dire, dal sacrificio della schiava innamorata. La quale, nella scena della tortura, non viene neanche sfiorata, e grida perché una guardia le muove contro l'alabarda, ma a debita distanza. È forse più nella supposizione dello scrivente che nelle intenzioni del regista, invece, il pallottoliere che viene a formarsi quando, a inizio secondo atto, i tre Ministri enumerano le vittime di Turandot spostando dischi lungo bastoni rossi fissati orizzontalmente, dischi bianchi e neri come i costumi dei Ministri stessi, yin e yang dei destini umani, caratterizzati da un istrionismo garbato e non troppo macchiettistico. La loro risata malefica, mentre si chiude il primo atto, presaga e irrisoria della sorte del «tredicesimo con quello che va sotto», aggiunge un tocco di barbara ironia non estranea ai personaggi. E c'è anche una sottile psicologia vagamente maschilista, insita in loro, nel dissuadere Calaf prospettando le gioie delle «cento spose» ma rivolgendosi a Liù. Un omaggio infine alle ombre cinesi è il raffinato tondo bianco e nero che cala dall'alto, con la silhouette della casetta nell'Honan.

La resa musicale non convince pienamente, pur con dei distinguo. A partire dalla direzione di Marco Guidarini: una direzione scolastica, che non si eleva con guizzi di personalità oltre il dettato scritto, anzi, lo sottomette a una lettura rigida, asettica, dove la trasparenza orchestrale viene salvata perché passata al microscopio, a scapito della visione d'insieme. La concertazione è apprezzabile, con un equilibrato rapporto col palcoscenico. Il coinvolgimento emotivo però rimane quasi estraneo, tutto è misurato, trattenuto, come le dinamiche. Col risultato che l'applausometro a fine recita parla da solo. La conseguenza è che l'Orchestra dell'Emilia-Romagna Arturo Toscanini non riesce a dare il meglio di sé, pur onorando la partitura pucciniana.

Anche il cast soffre di luci e ombre. Il rôle-titre è sostenuto da Leah Gordon, soprano con adeguata freddezza nella voce, lucente e tagliente, dai solidi centri sebbene con qualche difficoltà nel registro sovracuto, dove viene lanciata perdendone un poco il controllo. In questa reggia parte bene, poi si incrina qualcosa. È come se si avvertisse la dicotomia tra la cantante e il personaggio. Jaquelina Livieri, Liù, è dotata di musicalità, voce morbida e avvolgente; il suo volume, però, più corposo di quello che il ruolo vorrebbe, non riesce ad assottigliarsi a dovere nei delicati pianissimi acuti: il suo «m'hai sorr - ì-so» è ancora troppo “grosso” e con una certa stimbratura; si rifà tuttavia molto bene in Signore ascolta (che duetta con un'arpa fin invadente, collocata com'è nel palco di sinistra prospiciente la scena), dove l'acuto finale viene tenuto senza vibrare, tutto uniforme, filato e pianissimo. Anche a lei, tuttavia, è precluso l'entrare in empatia con la liliale Liù. E viene il sospetto che non sia imperizia di Gordon o Livieri, come degli altri interpreti, ma di specifiche indicazioni registiche a mantenere le distanze dai loro personaggi. Tutti in scena si muovono come rarefatti, inibiti, nell'ottica della stilizzazione: gestualità che invece diventa gratuita e poco funzionale da parte di mimi e ballerine durante il trio dei Ministri a inizio secondo atto.

Da questo punto di vista dell'immedesimazione, lo sforzo maggiore è sostenuto da Angelo Villari, che non solo sbozza, nei limiti del possibile, il suo Calaf, ma lo riveste di uno smalto vocale di tutto rispetto. La sua è una robustissima fibra di tenore drammatico spinto, piuttosto scura, con qualche sfumatura delmonachesca, ideale per questi ruoli, di una muscolosità vocale rara a trovarsi. Lo squillo vagamente opaco viene compensato da notevole potenza e abbondanza di fiato, usata con intelligenza, laddove averne non significa darle fondo in acuti interminabili: quelli di Nessun dorma, ad esempio, ineludibile banco di prova dell'opera, sono brevi e misurati, nel rispetto della partitura, e non rincorrono, diciamo così, scopi di lucro effettistico. D'altro canto, il duetto con Turandot al secondo atto e la sfida a colpi di note sempre più acute in «Gli enigmi sono tre» – sol, la diesis, do – è molto più impegnativa, ed è proprio lì che il gessetto di Beckmesser rileva, in questo “vero” maestro cantore, l'unica, minima, veniale défaillance.

Se il figlio è la punta di diamante del cast, disimpegna molto bene la parte anche il padre Timur, che ha la voce di Giacomo Prestia e si distingue anch'egli per l'immedesimazione nel ruolo, soprattutto quando gli viene concesso (ribadiamolo) di muoversi con più spontaneità e si può accostare al cadavere di Liù. Alle doti attoriali si accompagnano quelle vocali di un buon basso timbrato e fascinoso. Ben fatto anche per l'Altoum di Raffaele Feo, che conferisce al suo imperatore più prestanza e voglia di vivere di quanto di solito si veda e si senta fare: la sua non è una voce dall'oltretomba, di anziano senza tempo, ma una voce che rinuncia a quegli effetti di vibrato malfermo per farsi sicura e autoritaria, com'è giusto che sia per il suo ruolo. In questo sottrae un po' di scena alla figlia, dalla quale, nella visione tradizionale dell'opera, è soggiogato; ma va bene anche così.

Ben affiatato il trio di Ping (Fabio Previati), Pang (Saverio Pugliese) e Pong (Matteo Mazzaro), in cui è possibile valutare soltanto la bella voce del primo in Ho una casa nell'Honan, e buona prestazione anche per il Mandarino di Benjamin Cho. Completano il cast la Prima ancella di Haoyoung Yoo, la Seconda ancella di Eleonora Rota e il Principe di Persia di Alfonso Colosimo.

La parte corale è affidata a elementi del Coro Lirico di Modena e del Teatro Municipale di Piacenza, diretti da Corrado Casati, che si distinguono per il buon amalgama sonoro, un poco penalizzato dall'acustica della loro collocazione, e dal Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Modena, diretto da Paolo Gattolin, invero ancora perfettibile.

Christian Speranza

26/3/2024

Le foto del servizio sono di Rolando Paolo Guerzoni.