RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Torna al nido la Rondine e cinguetta

I critici cinematografici amano sostenere che, dopo Fellini, per alcuni registi girare il “proprio” Otto e mezzo è diventata una tentazione ineludibile: dal Truffaut di Effetto notte al Nanni Moretti di Sogni d'oro. Analogamente, più d'un compositore ha tentato di portare a termine la sua Traviata; e i casi della Storia hanno voluto che a farlo siano stati, in primo luogo, due musicisti come Massenet e Puccini, spesso collocati – loro malgrado – in parallelo. Il primo ci provò, nel 1897, con Sapho: niente Lesbo e Mitilene, al contrario dell'opera omonima di Gounod, ma una naturalistica pièce lyrique proveniente dalla narrativa di Daudet, dove un giovane provenzale («mare» e «suol» in funzione nostalgico-ricattatoria sono anche qui dietro l'angolo) perde la testa per una scandalosa modella parigina più vecchia di lui. Il secondo, vent'anni dopo, azzardò l'inclassificabile La Rondine : forse opera operettistica, forse operetta operistizzata, ambientata in una Parigi – al contrario di Traviata, e pure di Bohème – tutta “mentale”, come spesso avviene con i luoghi del tardo Puccini, e occhieggiante semmai a quella Vienna che avrebbe dovuto ospitare la première del lavoro, se lo scoppio della Grande Guerra non avesse fatto dirottare il debutto sul neutrale Montecarlo.

Stando così le cose, la scelta di ambientare La Rondine nelle vestigia d'un teatro diroccato è tutt'altro che peregrina: evoca la natura metateatrale della partitura pucciniana e, al contempo, le macerie di un conflitto mondiale ancora in atto. Ne siamo debitori al regista Paul-Émile Fourny, autore della messinscena di questa coproduzione tra Pisa, Jesi e l'Eurométropole di Metz – la recensione dà conto della “prima” jesina – che, a fronte di altre Rondini previste in concomitanza del centenario di Puccini (Torino, Milano, un po' più in là Trieste), rischiava di far la figura del parente povero e, invece, desta un notevole interesse. Al buon esito dell'allestimento offrono un contributo decisivo anche le scene di Benito Leonori, d'un ossimorico “realismo evocativo” che fa traghettare la concettualità dell'impianto verso lidi scorrevolmente illustrativi, e i costumi di Giovanni Fiorentini: veri e propri personaggi anch'essi, come si conviene a un'opera in cui – con tre lustri di anticipo sullo Strauss di Arabella – il mascheramento trascolora in un estremo tentativo di metamorfosi.

Insomma un lavoro ambiguo e sfuggente, tuttora alla ricerca d'una fisionomia definitiva con le sue tre diverse stesure: la prima, utilizzata anche a Jesi, resta la più coraggiosa e moderna, ma da un direttore e un regista in simbiosi potrebbe nascere una versione mixata che prende il meglio dell'una e dell'altra, proprio come in certi Don Carlo e Tannhäuser. Direttore giovane eppure già di lunga militanza pucciniana, Valerio Galli restituisce con efficacia tanto i pulsanti frastagliamenti ritmici quanto la levità crepuscolare e malinconica, ben servito da un'Orchestra Filarmonica Marchigiana che non sempre è una garanzia – accade inevitabilmente con gli organici sottoposti a un ricorrente turnover – ma questa volta appare in gran forma.

Magda resta la meno citata e più anticonformista tra le protagoniste pucciniane: una Violetta sprovvista di tisi e dunque di catarsi, ma con la schiena così dritta da rinunciare scientemente a qualsiasi possibilità di riscatto sociale (la differenza tra una mantenuta dell'Ottocento e una del nuovo secolo è tutta qui, sembra volerci dire Puccini). Di tale personaggio, Claudia Pavone ha la credibilità scenica, la scorrevolezza nel canto conversativo, i mezzitoni umbratili, le improvvise impennate di tensione e volume. Più che un tenore-spalla, come può esserlo Pinkerton della Butterfly, almeno nella sua prima stesura La Rondine prevede poi due tenori paritariamente deuteragonisti: l'uno (Ruggero, il giovanotto di provincia finito nella Parigi tentacolare) in abiti più tradizionalmente amorosi, l'altro (Prunier, poeta da salotto e da caffè) in vesti quasi demiurgico-pirandelliane. A Jesi si sono avuti due cantanti ben differenziati tanto sul piano coloristico (di trasparente timbratura Matteo Falcier, assai più scuro Vassily Solodkyy) quanto su quello scenico (l'uno impacciato come si conviene, l'altro mercuriale): saldissimo tecnico il primo, che ha aggirato con sicurezza vocale una pur palese indisposizione, altrettanto ottimo musicista il secondo, che si accompagna da solo al pianoforte – senza alcuna necessità di “doppiaggio” dietro le quinte – nel suo capriccio poetico del primo atto.

L'altro soprano, Maria Laura Jacobellis, non ha quello spessore quasi coprotagonistico che gioverebbe alla cameriera Lisette (in disco Graziella Sciutti e Mariana Nicolesco seppero rubare la scena ad Anna Moffo e Kiri Te Kanawa), ma incarna il personaggio con indubbio spirito e garbata caricaturalità. E nel pregnante ancorché fugace ruolo di Rambaldo, il banchiere protettore di Magda, si fa onore il baritono Francesco Verna: signore, viveur, sensuale con disincanto, civilissimo. Quasi un alter ego di Puccini.

Paolo Patrizi

19/12/2023

La foto del servizio è di Binci.