RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Mimì torna a Torino

Dopo due incursioni in regioni per certi versi diametralmente opposte del repertorio vocale francese, il grand opéra con La juive di Halévy e l'operetta con Un mari à la porte di Offenbach, il Teatro Regio di Torino dà il via ufficiale alle celebrazioni del centenario della morte di Puccini con La bohème, terzo titolo in cartellone e primo dei cinque programmati per questa stagione, assieme con La rondine a novembre, La fanciulla del west e Le villi tra marzo e aprile e Il trittico tra giugno e luglio (otto, scomponendo quest'ultimo), in un disegno che dovrebbe arrivare a coprire tutte e dodici le opere del Lucchese nel 2024.

Un'anticipazione s'era già avuta con la Madama Butterfly che ha chiuso quella passata, a giugno, nell'allestimento di Damiano Michieletto che proprio a Torino aveva debuttato nel 2010 (e non l'avesse mai fatto… opinione personale); intanto, a proposito di allestimenti, al volgere dell'anno che, più che a Puccini è stato dedicato a Rachmaninov, di cui sono trascorsi i centocinquant'anni dalla nascita e i gli ottanta dalla morte (1873-1943), La bohème è stata presentata, o meglio ripresentata, in quello che Giuseppe Patroni Griffi ideò per la “ Bohème del centenario”. Nel 1996 un cast di tutto rispetto, sebbene non più di primo pelo (Luciano Pavarotti, Mirella Freni, Nicolaj Ghiaurov, Lucio Gallo, Anna Rita Taliento, Pietro Spagnoli), vestì i costumi e si mosse sulle scene di Aldo Terlizzi Patroni Griffi, che aveva in mente i bozzetti dipinti da Adolfo Hohenstein per la prima assoluta (proprio al Regio di Torino, primo febbraio 1896, Arturo Toscanini sul podio; un secolo dopo fu invece il turno di Daniel Oren). Debitamente ripresa da Vittorio Borrelli, diretta da Antonio Stallone e con le luci di Andrea Anfossi, la regia di Patroni Griffi torna a far emozionare con l'albero e la neve alla Barriera d'Enfer, il colorato Caffè Momus sulla destra, folla, Parpignol e Tamburo Maggiore sulla sinistra, la soffitta con le tele di Marcello da un lato e la stufa di ghisa al centro, ara per il sacrificio non della sedia ma dell' ardente dramma di Rodolfo, il tavolino per tagliare corta la coda al «Castoro» e il letticciolo sulla sinistra dove Mimì… be', sappiamo come va a finire. Graham Vick può continuare a far morire la “sua” Mimì strafatta di crack altrove. A Torino, la sabauda, conservatrice Torino, La bohème continua a piacere così com'è, anche se Patroni Griffi la ambienta non nel «1830 circa», come da libretto, ma una cinquantina d'anni più tardi, in epoca grosso modo contemporanea alla giovinezza studentesca di Puccini che da Milano, in una lettera al ricco zio notaio di Lucca (6 dicembre 1882), domanda qualche soldo per comprare «una di quelle stufe economiche da brace» (ecco quindi giustificato il caminetto di Illica e Giacosa trasformato in stufa). Momus all'epoca non sarà più stato aperto, le monete con Luigi Filippo non più in corso: pazienza, Patroni Griffi val bene qualche incongruenza storica.

A prendere il posto di Pavarotti & friends del 1996, una compagnia di canto tutto sommato omogenea e ben allestita, non eccelsa, ma in grado di condurre degnamente in porto la recita – qui in esame quella di sabato 28 ottobre 2023, quarta e ultima del secondo cast. Rodolfo è interpretato da Galeano Salas, tenore di buona fattura e buona liricità, di timbro aereo, chiaro, sfortunatamente un po' debole per il ruolo (e non certo aiutato dalla direzione, come si dirà), ma in grado di raggiungere, anche se poco proiettati, gli acuti richiesti e di sfumare con garbo i passaggi più delicati. Lo si apprezza in Che gelida manina – biglietto da visita presentato con giuste intenzioni, risolto mediocremente, ripeto, solo a causa di uno strumento di peso specifico inadeguato – e nel realismo con cui interpreta in modo verosimile e convinto «quell'andare e venire», particolare che dimostra, come molti altri lungo la recita, una spiccata capacità di immedesimazione e di resa melpomenea. Sua amoreuse sulla scena è Maria Teresa Leva, vocalità ampia e robusta, ma usata un po' troppo drammaticamente per la fragile Mimì: il meglio arriva infatti al III quadro, nel duetto con Marcello, in cui disfoga le sue ansie con Marcello; ne consegue che Sì. Mi chiamano Mimì e Sono andati? Fingevo di dormire godono di un'interpretazione di sicuro trasporto, ma con poche cesellature, luminosa nei forte e negli acuti, meno riuscita nei piano e nelle mezze tinte. Più fresca, di canto più elegante e solare la Musetta di Cristin Arsenova, l'interprete più convincente della serata, che unisce alla grazia civettuola ma mai sdolcinata del II quadro (anzi, è una Musetta che sa farsi rispettare!) l'accorata partecipazione e il patetismo angosciato ma non tragico del IV. Si prosegue con Biagio Pizzuti, un corretto e convincente Marcello dalla voce bruna, timbrata, che piace, e che sa usare adattandola ai diversi stati d'animo del personaggio, dalle espansioni liriche di Gioventù mia, tu non sei morta, alla litigata con Musetta, al Se pingere mi piace, fra il trasognato e il malinconico. Ottima spalla per Rodolfo, concerta bene negli assiemi, accanto agli altri due bohémien, lo Schaunard di Jan Antem e il Colline di Ugo Gagliardo, che scioglie, quest'ultimo, alla sua vecchia zimarra un canto misurato, composto, come non volesse far trasparire il dolore della prossima separazione: il che potrebbe anche attagliarsi al personaggio, che per tutta l'opera ostenta il distacco dagli affari di cuore; peccato solo che la poca profondità della cavata non conferisca la giusta rotondità, la giusta gravità al brano. Perché poi il Benoît di Nicolò Ceriani, che interpreta anche Alcindoro, debba scadere nel macchiettistico, pur disponendo di buona voce, resta da capire. Completano infine il cast il Parpignol di Marino Capettini, il Sergente dei doganieri di Desaret Lika e il Doganiere di Marco Tognozzi.

Bene per il Coro della Casa e per il Coro di Voci Bianche, istruiti rispettivamente da Ulisse Trabacchin e Claudio Fenoglio, al solito valenti compagini, purtroppo qui sacrificate dal ruolo marginale, e bene anche per l'Orchestra, che sfoggia il suono pulito e preciso alla cui qualità ha ormai abituato i suoi frequentatori. Una qualità che si paga con decenni di studio e che va (ri)pagata ( art is work , si diceva in tempo di Covid) col giusto salario: ed è proprio per ottenerlo, attraverso il rinnovo del CCNL delle Fondazioni Lirico Sinfoniche, che le maestranze hanno scioperato, facendo saltare la prima, programmata per venerdì 20 ottobre; a tal proposito lo scrivente tiene a esprimere che sostiene in pieno la causa dell'Orchestra, vedendo verificarsi una situazione per certi aspetti analoga nel suo ambito di lavoro, con un sindacato praticamente fermo dagli anni Novanta.

La valente prova dell'orchestra, del coro, e, pur se routinaria, della compagnia di canto non salva tuttavia la recita da una direzione che spinge il suono a volumi soverchianti e pare abbia dimenticato l'equilibrio buca-palcoscenico, in una parola la concertazione, a casa, specialmente nel II quadro, già precariamente in bilico di suo tra caos e cantabili isolati per volere di Puccini, che così imita la confusione del mercato delle pulci (qualcosa di questa tecnica, ma enormemente raffinata, tornerà nel trattamento del popolo di Pekino che assiepa il primo atto di Turandot ). Non è solo un problema di bilanciamento del suono. La plumbea bacchetta di Andrea Battistoni, altre volte invece encomiabile, non arieggia la partitura, che risulta così eccessivamente statica, pesante, e la tratta con fredda impassibilità, pur sforzandosi di mettere in rilievo qua e là alcune delle molte raffinatezze armoniche e timbriche di cui abbonda. Il suono esce, così, duro, privato quasi in toto di quella sì dolce malia di cui solo Puccini era capace. Una Bohème insomma monolitica e bidimensionale, che però non manca di entusiasmare gran parte del pubblico in sala, perché, diciamocelo, potrà piacere o non piacere, ma è un'opera che, più di tante altre altre, sa parlare ai giovani perché parla di giovani: giovani realistici, con sogni nel cassetto, progetti da realizzare, che si innamorano e piangono per un amore perduto, ben più realistici di un Ernani che piomba in un castello per rapire la sua bella costretta a sposare lo zio. La Bohème da lacrimuccia, tuttavia, è un'altra.

Christian Speranza

2/11/2023