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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il Bellini chiude in bellezza la stagione lirica 2023 con

La Traviata

Titolo tra i più amati della storia del melodramma italiano, La Traviata di Giuseppe Verdi chiude la stagione lirica 2023 del Bellini di Catania, richiamando come sempre folle di appassionati che hanno fatto sì che tutte le recite previste dall'1 al 9 dicembre registrassero il tutto esaurito, forse anche perché veniva riproposto, in collaborazione con l'Associazione Arena Sferisterio di Macerata e con la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, il celeberrimo allestimento di Josef Svoboda, creato nel 1992 per lo Sferisterio di Macerata, comunemente noto come La Traviata degli specchi.

Pare che questo originalissimo allestimento sia nato da una perplessità di Svoboda sull'accettare o meno l'incarico, giacché il palco dello Sferisterio, pur essendo larghissimo, presenta una limitata profondità, perplessità risolta durante un pranzo, nel quale lo scenografo indugiò a osservare il riflesso della lama inclinata di un coltello sul tavolo, che gli diede l'idea primaria per aumentare a dismisura la profondità del palcoscenico, con una superficie inclinata di specchi, che avrebbero riflesso sia le attrezzerie di scena, sia i cantanti e i loro movimenti, sia soprattutto gli enormi dipinti disposti sul piano di calpestio del palco, ormai noti come tappeti di Svoboda, arrivando nel finale dell'opera, grazie all'aumentare dell'inclinazione, a inglobare non solo la buca dell'orchestra, ma tutto il parterre del pubblico, in un effetto di immersione totale volto ad accentuare da un lato il coinvolgimento degli spettatori, ma dall'altro, paradossalmente, a creare un effetto straniante, in linea con le istanze del teatro brechtiano, in virtù del quale il pubblico ha la dimostrazione ostensiva del suo assistere a una finzione, dell'assistere a una vicenda doppiamente fittizia, perché ne scorge contemporaneamente lo svolgersi sul palcoscenico e nel riflesso rovesciato dell'immensa superficie riflettente. A tal proposito si è parlato spesso di una Traviata voyeuristica, ma a chi scrive piace pensare piuttosto al riflesso della realtà, nel senso che in questo allestimento il polo oggettivo (l'azione reale sulla scena) e il polo soggettivo (l'immagine riflessa, naturalmente rovesciata) sono contemporaneamente presenti, creando un cortocircuito straniante tra gli accadimenti e la percezione degli stessi. Così, il formicolio degli invitati del primo atto si svela come un agitarsi a vuoto, nella vuota esistenza di un salotto galante ai limiti del postribolo, mentre il dolore di Violetta nel dialogo con Germont padre si riflette nel suo fuggire verso gli specchi, ma soprattutto nel sostituirsi della dimora di campagna con un prato di margherite, eponime dell'originaria eroina di Dumas, margherite che si accartocceranno per cedere il posto a conformistiche foto borghesi, riflesso della vita a cui Alfredo dovrà tornare, margherite che saranno i fiori tra i quali Violetta sarà presto, ma sempre “presso a te sempre, sempre…”, come canta prima dell'accorato addio “Amami, Alfredo, quanto io t'amo…”. E lo stesso Alfredo, sottoposto alle rampogne del padre, si accascia al suolo in un atteggiamento di sconforto che solo il suo riflesso nello specchio svela come un ritorno alla posizione fetale, quasi un estremo fuggire che solo lo specchio può svelare nella sua terribile realtà. E ancora, nel terzo atto, gli enormi candelabri rovesciati riflettono sugli specchi l'abbandono totale della dimora della cortigiana d'un tempo, in stridente contrasto coll'elegante letto di morte, ma ancor più con le grottesche maschere dai nasi adunchi (un ricordo dell'abbigliamento dei medici durante le epidemie di peste?) che irrompono durante il coro del Bue grasso, attorniando la donna morente in una ridda infernale. I costumi di Giancarlo Colis e le luci di Henning Brockhaus, che ha curato anche una regia dove nessun particolare è stato lasciato al caso, dove ogni movimento concorreva a creare un unicum organico e grandioso, hanno creato un allusivo, quasi simbolico caleidoscopio di colori, giacché il nero e il rosso predominavano nelle scene mondane, lasciando invece spazio a tinte chiare e parzialmente rasserenanti nella prima parte del secondo atto, e a un biancore lattescente, interrotto da una camicia da notte lilla, nell'abito di morte di Violetta, punto luminoso che si stagliava su un riflesso violaceo, ben più del nero colore di morte, viola un tempo inviso in teatro, perché rammentava la Quaresima (che segue al Carnevale simboleggiato dal Bue grasso), tempo di divieto per ogni spettacolo e dunque di fame per ogni teatrante.

Un viola che, almeno alla prima del 1° dicembre, non ha dato origine a nessun effetto malefico, perché il foltissimo pubblico presente ha entusiasticamente applaudito a uno spettacolo che, sotto ogni aspetto, si è rivelato degno di nota, a partire dalla direzione di Josè Cura, grande tenore argentino, ma anche direttore d'orchestra e compositore, che ha donato all'orchestra del Bellini di Catania tutta la sua esperienza di cantante verdiano, per far sì che Traviata potesse emergere in tutta la sua complessità musicale, grazie a una scelta dei tempi egregia, in grado di assecondare i cantanti ma anche di segnare i diversi momenti dell'opera, dal formicolio esagitato del primo atto (chiaramente voluto) con ritmi serrati e stretti, a tratti quasi rutilanti, per poi rasserenarsi al secondo nel lirismo accorato dei duetti, procedendo con estrema perizia nel concertato finale del secondo atto, dove ogni voce poteva essere percepita con raro nitore, per poi concludersi nell'ineluttabilità della morte nel finale del terzo, dove le battute finali delle percussioni, bronzee, incalzanti, ma dotate di una rotondità di suono invidiabile, hanno suggellato l'aspetto più tragico e doloroso della partitura. Notevoli sotto ogni aspetto gli apporti del settore archi, delicati e soffusi nel preludio al terzo atto, e degli interventi del primo violino e del clarinetto solista, che hanno contribuito a confermare ancora una volta la sicura crescita dell'orchestra del Bellini, sia in termini di coesione che di qualità di suono. Lo stesso può dirsi del coro, diretto da Luigi Petrozziello, coro che mostra ad ogni rappresentazione una maggiore morbidezza vocale e misura nei suoi interventi. Da segnalare infine le belle coreografie di Valentina Escobar, che ha fatto delle zingarelle e dei toreador un vero e proprio momento di danza scanzonata e rutilante come in ogni carnevale galante che possa dirsi tale.

Sul versante vocale, caratterizzato da un gran numero di comprimari, va senz'altro notato il Dottor Grenville di Gaetano Triscari, ottimo basso profondo, dotato di una timbratura e tenuta di fiato davvero interessanti, mentre la Flora di Elena Belfiore si è distinta più per scioltezza e disinvoltura scenica che per vocalità. Di routine Sonia Fortunato, Massimiliano Chiarolla, Gianluca Lentini e Dario Giorgelè, rispettivamente nei ruoli di Annina, Gastone, del Barone Douphol e del Marchese d'Obigny.

Franco Vassallo, nel ruolo di Giorgio Germont, si è rivelato il vero e proprio baritono grand seigneur che il ruolo richiede: grazie a una voce morbida e lunga, non eccessivamente potente ma dalla bronzea timbratura, ha saputo sgombrare il suo personaggio dagli aspetti più antipatici (cosa difficile per i genitori verdiani!) e dispotici che molti cantanti ritengono oggi siano le caratteristiche essenziali del padre di Alfredo, puntando invece su un canto accorato, talvolta quasi implorante nel duetto con Violetta, e su una paternalità autorevole ma non imperiosa in quello con Alfredo, quando ha interpretato la celeberrima “Di Provenza, il mar, il suol”, seguita dalla cabaletta “No, non udrai rimproveri”, ormai rientrata a pieno titolo nella prassi esecutiva, con grande e sofferta partecipazione, lasciando emergere invece tutta la durezza del genitore sdegnato dinanzi all'oltraggio recato dal figlio a Violetta durante la festa di Flora, quando, con buona pace dei sostenitori del permanere contemporaneo del paternalismo patriarcale, ha scandito con fierezza scultorea “Di sprezzo degno se stesso rende chi pur nell'ira la donna offende”. Giorgio Misseri, Alfredo, pur non pienamente a suo agio da un punto di vista vocale nel ruolo di tenore lirico che la parte richiede, ha comunque dato prova di una buona tecnica, di dizione chiara e di musicalità, destreggiandosi con perizia anche da un punto di vista scenico.

Quanto a Daniela Schillaci, Violetta, dopo un inizio alquanto incerto, almeno fino al celeberrimo brindisi, è andata via via crescendo, trovando a partire dal secondo atto finalmente una quadra tra recitativi e arie: sgombrato il campo da ogni tentazione verista, il soprano siciliano ha utilizzato al meglio la sua voce lunga e potente, evidenziando una zona media notevole e sicurezza nei passaggi di registro, ma anche filati e mezze voci che hanno reso il suo canto morbido e duttile, attento alle sfumature e alla complessità del personaggio. Un canto che dimostra che la Schillaci ha maturato moltissimo uno dei ruoli più impegnativi del repertorio sopranile, soprattutto grazie alla cura più attenta concessa ai recitativi, alla dizione chiara, alla copertura degli acuti e all'aver smussato quelle asprezze che, gradite in Mascagni, in Leoncavallo o in certo Verdi (Lady Macbeth), non le avrebbero permesso di costruire una Violetta cortigiana imperiosa ma passionale e dolente, e donna innamorata cosciente delle oscene regole borghesi che altro non le consentono che di morire, ma al contempo rassegnata ad accettarle come una necessità ineluttabile.

Giuliana Cutore

2/12/2023

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.