RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Una Forza irresistibile

Premetto: non amo le regie innovative. Ma il superamento di una posizione che voglia aborrire una Traviata al di fuori dei salotti parigini o una Carmen senza monti andalusi deve partire fondamentalmente dal chiedersi se uno spettacolo funzioni o no nel suo insieme.

La forza del destino in scena a Bologna funziona benissimo. Pur non essendo il classico allestimento da manuale – o da libretto, meglio –, non si può parlare di canoni antiestetici solo perché ne sceglie altri. Se a ciò si aggiunge un cast di prim'ordine, un'orchestra e un coro d'irrefragabile qualità, ecco che lo spettacolo si consegna da solo a perdurevole memoria.

La recita è quella di domenica 18 giugno 2023 (data perfettamente in linea con la fama porta-jella del titolo, dato che il 18 giugno 1840 veniva a mancare Margherita Barezzi, prima moglie di Verdi. Coincidenze? Forse il destino). La sede è il Comunale Nouveau, succursale provvisoria della storica sala del Bibiena ora chiusa per restauro, meno fascinosa dell'originale ma ugualmente funzionale allo scopo e di buona acustica. Un'acustica che permette alla Forza di dispiegare tutta la sua bellezza sotto l'attenta e precisa bacchetta di Asher Fisch: ne scaturisce un suono terso, levigato e piuttosto trasparente nei piani sonori, che permette in diversi punti di apprezzare il raffinato trattamento verdiano dell'orchestra (tanto per dire, la diversa strumentazione, sotto analoga linea melodica, nel duetto fra Don Carlo e Don Alvaro, atto IV). Il tempo staccato, leggermente più lento della media, e la lettura complessiva, tendente allo statico, improntano l'andamento della partitura a una generale statuarietà, sottraendone in parte il fuoco che la incendia: questo, se da un lato ne esalta il lato maestoso e quello sacrale – i Finali II e IV, il corrusco echeggiare di guerra nell'atto III, ecc. –, dall'altro penalizza quelli ove azione e musica si infervorano. Un guizzo di dinamismo in più avrebbe animato meglio le scene più movimentate: inizio atto II, il Rataplan, i poveri di Melitone… Riassumendo, una direzione buona, tecnicamente inappuntabile ma piuttosto uniforme e non coinvolgente fino in fondo.

Meritatissimo il calore dimostrato dal pubblico al secondo cast, con Erika Grimaldi del primo, al suo debutto nel ruolo, che sostituisce la prevista Francesca Tiburzi. L'avevo lasciata a Torino a marzo, a vestire la tunica di Aida: la ritrovo nelle vesti di una stupefacente Donna Leonora, una lama affilatissima, voce piena e squillante, omogenea in tutti i registri e in grado di conformarsi alle più diverse esigenze interpretative: i prolungati ed entusiasti applausi al termine di Son giunta!… Madre, pietosa Vergine premiano non solo il filato conclusivo, limpido, lungo e tenuto fino alla fine, ma anche il senso di affanno trasmesso all'inizio, sull'incalzare del tema del destino, e di santo abbandono (citando Lehodey) alla fine. Applausi che si ripetono forse ancora più convinti al termine di Pace, pace, mio Dio! interpretata (vissuta!) con autentica anima. Da sottolineare che la recita cui ho assistito è stata per lei la seconda in ventiquattr'ore, dopo aver cantato anche in quella della sera prima. Di altissimo livello anche Angelo Villari, a suo agio in un ruolo che domina con una tecnica ferrea e al quale si dà senza riserve, scolpendo un Don Alvaro appassionato, virile, esaltante. Il timbro è scuro, la voce, di una forza prorompente, sale all'acuto con impressionante facilità e senza stringersi, sa essere ampia, voluminosa, corre a riempire la sala (il paragone con il giovane Del Monaco, avanzato da una collega, non pare essere così azzardato, nonostante si scomodi un gigante della lirica), come pure sa flautarsi in un O tu che in seno agli angeli delicato, da ala di libellula: tutto questo, unito alla tornitura della parola e a un gesto scenico efficace, porta anche qui il pubblico ad applaudire a lungo, con varie richieste di Bis! e un Sei grande! sull'onda scemante dell'applauso, al quale mi unisco senz'altro. Favoloso anche nei duetti con Don Carlo al III e IV atto. È proprio il Don Carlo di Stefano Meo, però, a non convincere del tutto. La voce è solida, temprata, il fa diesis acuto della canzone di Pereda, per un baritono già piuttosto in alto, gli esce senza problemi, salvo poi faticare al III atto in Urna fatale; ma si rileva poco scavo del personaggio, poca espressività, sia sul piano vocale, dove manca di mordente, di quella autentica voglia di vendetta cieca e monolitica che caratterizza il personaggio, che, non dimentichiamolo, lo spinge già morente a pugnalare la sorella, sia su quello fisico, dove nei momenti di maggiore concitazione (duello con Don Alvaro, ecc.) resta pressoché fermo in scena (anche se potrebbe essere colpa della regia che così lo vuole: un automa senza personalità che persegue un obiettivo per onor di famiglia, che non pensa ma agisce; anche se la vedo improbabile). A Cristina Melis i complimenti per una buona Preziosilla, timbro fulgido e buona estensione, messa talvolta in difficoltà dalla tessitura sopranile della scrittura verdiana, ma d'interpretazione complessivamente convincente. Autorevoli nei loro ruoli e corretti, pur con le loro differenze, il Marchese di Calatrava di Cristian Saitta e il Padre Guardiano di Abramo Rosalen, entrambi bassi dallo strumento caldo e brunito, che ci si augura di riascoltare presto in ruoli più estesi. Quanto a Sergio Vitale, tratteggia un Fra' Melitone di sicuro impatto e vivido realismo, fidando in una recitazione briosa, un poco sopra le righe ma non macchiettistica, che sottolinea il carattere burbero del frate, e in una voce robusta, irruvidita a dovere; e, se stenta un po' al III atto, si riprende in pieno al IV. Grazie a lui la distribuzione della minestra assume un taglio quasi filmico da sketch e la vivezza da scena popolare d'una tela fiamminga.

Bene anche per i comprimari: il Mastro Trabuco di Orlando Polidoro (tenore un po' leggero ma adatto alla parte), la Curra di Federica Giansanti (particolarmente apprezzata), l'Alcade di Fabrizio Brancaccio e il Chirurgo di Tong Liu, membro del preparatissimo Coro del Teatro (istruito da Gea Garatti Ansini), che offre una bella e partecipe prestazione, come pure l'Orchestra, affiatata e coesa.

Un allestimento fuori dai canoni, dicevo, adatto al ritorno di un titolo che latitava a Bologna da quarant'anni. Yannis Kokkos, che firma regia, scene e costumi – coadiuvato dai rispettivi assistenti Stephan Grögler, Cleo Laigret e Paola Mariani –, lo aveva già presentato allo scorso Festival Verdi di Parma e lo adatta qui al Comunale Nouveau su drammaturgia di Anne Blancardi. Durante la Sinfonia è proiettato un cielo nubiloso all'imbrunire, con nuvole in movimento (projection designer: Sergio Metalli), riprese durante l'opera in vari momenti, come al tramonto, rosso-arancione, e in notturna, con tanto di Luna bianca. All'apertura del sipario, Leonora è in abito blu-viola, come Curra, e il padre in rosso scuro. La scena è unica, piuttosto vuota, ma per questo adattabile alle altre ambientazioni. Gli interni del I atto sono resi con la proiezione di una fuga prospettica di stanze; sul palcoscenico poche sedie e una piattaforma simile a una bassa tavola da picnic. Tutto nero. Al II atto le sedie si moltiplicano e diventano l'osteria di Hornachuelos. Preziosilla indossa abiti da gitana con un certo grado di libertà, la gonna ricavata da una tenda o una coperta, Don Carlo in cappottone nero. Si delinea un ambiente concreto, contemporaneo (i servi del Marchese di Calatrava, che al I atto irrompono puntando le pistole contro Don Alvaro in una sorta di triello, sono in pratica agenti della security), ma alcuni elementi fuori dal tempo turbano con sottile inquietudine, rendendo epoca e contesto sfuggenti e in definitiva non inquadrabili: un tamburino, seduto di schiena, ha una maschera di teschio sulla nuca, che dà l'idea di una testa ruotata; e quando arriva È bella la guerra, il cielo diventa d'un verde acido, livido, con un cerchio luminoso puntato su Preziosilla e riflessi rosso cupo all'intorno. Giuseppe Di Iorio lavora con cura all'illuminotecnica, qui come altrove, come nell'altra scena d'insieme, quella del Rataplan, ove le coreografie di Marta Bevilacqua contribuiscono a dare l'idea di una scena straniante: là fuori c'è la guerra, c'è gente che muore, ma luci e danze illudono che il proprio guscio tenga fuori ogni bruttura («viva, viva la pazzia / che qui sola ha da regnar»); si colgono suggestioni della Morte Rossa di Poe, del banchetto in mezzo alla peste del Nosferatu di Herzog; e dietro Melitone che predica invano, appaiono immagini teschiformi in movimento vagamente espressioniste, visionarie, deliranti, in spirito, se non in stile, affini al Dalí dell'In voluptas mors e del Visage de la guerre, con comparse mascherate, entraîneuses, Preziosilla ormai vestita da soldato (con gli stessi pantaloni di Don Alvaro ufficiale, simili a quelli della Polizia italiana, grigi coi galloni rossi). Unico neo, in mezzo a tanto colore e tanta varietà di soggetti – ma come rendere meglio il caos materiale e psicologico della guerra? –, masse corali che soffrono di un certo immobilismo – lo stesso immobilismo, per inciso, di cui soffrono i duetti, col duello fra Don Carlo e Don Alvaro disputato con pugnali così corti, che i due si avvinghiano e restano irrealisticamente fermi, o con Leonora morente dalla quale Don Alvaro resta a debita distanza, senza muoversi, senza empatia.

Tanta concretezza ha il bello di non ridursi a un'epoca storica, come dicevo, e si generalizza alla condizione umana, oggettivando le traversie del destino e rendendole valide al di là della Storia. Probabilmente è per questo che funziona. La guerra in cui si getta Don Alvaro non è una guerra, ma la guerra, quale che sia, qui resa da un albero incenerito e da rovine di edifici che contrastano fortemente (e magnificamente) con la scena del pio monastero dell'atto II (sarà un caso che in certi momenti l'immagine proiettata sembri la Basilica di San Petronio di… Bologna? Omaggio alla città ospitante. Anche se potrebbe essere San Lorenzo di Firenze; in ogni caso, una facciata non finita di mattoni a vista). La fuga prospettica del I atto si ripresenta, ma stavolta è dritta: colonne bianche che si perdono sospese in un cielo di nuvole grigie e convergono al fondo, ove compare una croce bianca proiettata. Si percepisce un senso di levità, ogni altro elemento sarebbe superfluo: si addice solo la processione dei monaci incappucciati, in controluce, coi ceri in mano, in penombra. Astrattismo surreale (i cui vuoti alleggeriscono i pieni orgiastici del Rataplan), che suggerisce forse più spiritualità di quanto potrebbero fare banchi lignei, altari e cappelle. Spiritualità data anche dal rischiararsi della scena alla chiusura dell'opera: dopo tanti momenti scuri, come s'è detto anche piuttosto devianti (e non s'è detto dello scoppio della guerra in cui Don Alvaro resta ferito, reso con sprizzi di luce rossa simili a lapilli di lava), il lucore, sinestetico col tremolo degli archi che svaporano ai limiti dell'udibile, dona un senso di compiuto, di pacificato, proprio quando Don Alvaro si rassegna a reincontrare Leonora in cielo (versione milanese del 1869, qui eseguita). Una regia particolare, dove gli unici a essere vestiti come dovrebbero sono Melitone, il Padre Guardiano e i confratelli, con un occhio alla tradizione e uno, anzi molti, alla sperimentazione; ma che funziona.

Christian Speranza

28/6/2023

Le foto del servizio sono di Andrea Ranzi.