RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Manrico al circo (e Azucena pure)

«Il teatro di regia deve dare vita contemporanea alle opere del passato. Non inseguire il “famolo strano” o la provocazione di per sé». Parola di Davide Livermore, che inscena Il trovatore al Teatro Regio di Parma per il Festival Verdi 2023. E sarà pure, caro Davide, ma cerchiamo di capirci.

Che sia provocatorio, Livermore, si sa; che insegua sirene metateatrali, nell'intento di trasmettere un messaggio metaoperistico, di trascendere la realtà storica del teatro, di travalicare i secoli e attualizzarsi al nostro tempo, di evangelizzare la presente generazione, anche. Basti ricordare I vespri siciliani con la strage di Capaci sovrascritta ai soprusi dei Francesi, vedi Torino 2011 (un politicamente impegnato orgogliosamente scomodo). Ma alcune provocazioni sono tali finché vengono proposte una volta, due, tre. Poi si finisce per essere, più che ripetitivi, prevedibili… prevedibilmente provocatori… o provocatoriamente prevedibili. E per emendarsi (ma chi vuole emendarsi, qui, ottuso passatista estensore di panzane?!), a poco vale una Tosca didascalica una tantum, vedi Scala 2019.

Livermore non si ripete mai in modo letterale. Quel che traspare è però la costante di un'ambientazione “altra”, che le parole stesse atte a descriverla sanno di trito e già sentito: post-apocalittico, distopico et consimilia. In questo Trovatore si inscena l'opposizione dei poteri forti del Conte di Luna e dei suoi sgherri, simboleggiati da palazzoni di vetro e acciaio circondati da acqua grigia, e di una realtà emarginata allo sbando come quella di un circo fatiscente, sotto il cui tendone lacero e sporco alberga una sorte di corte dei miracoli: fra trampolieri, mangiafuoco, acrobati sul monociclo, saltimbanchi e clown, si trovano anche Manrico e Azucena. I costumi di Anna Verde fanno di tutti loro grotteschi personaggi di un Tim Burton ispirato alla lontana da Freaks e contaminato dai clown del Rigoletto michielettesco, vedi Roma 2020 (o di quello di Bregenz del 2021, o di quello di Olbinski); le scene di Giò Forma (altra costante dell'entourage di Livermore, che scrittura Carlo Sciaccaluga come regista collaboratore) ricorrono a originali soluzioni per esprimere il degrado di questo circo che, si intuisce, forse è fermo da mesi con gli spettacoli: torrette di copertoni, bidoni di latta, una lavatrice scassata, una pedana per elefanti, la tribuna a emiciclo dei posti a sedere ormai spoglia e scheletrita, che una piattaforma girevole al centro del palcoscenico fa ruotare su se stessa e che viene impiegata per far ruotare anche altre strutture, come un alto traliccio metallico arrugginito, dopo che Ferrando, a inizio opera, in giacca di pelle nera, ha finito il suo racconto. E si scopre così che Leonora viene a passeggiare in questi bassifondi, assieme a Ines, dove attira l'occhio una malmessa poltrona di pelle abbandonata. Curiosamente, non si penetra mai, in quei palazzoni del potere, peraltro anche un po' macilenti, che nell'intervista con Livermore vengono detti ispirati ai Palazzi celesti di Anselm Kiefer: unici interni sono la scena finale, la cella di Manrico e Azucena, dentro cui Manrico viene giustiziato con un colpo di pistola alla testa – una cella lugubre, grigia e fredda, che ricorda quelle imbottite dei pazienti psichiatrici –, e la scena del convento ove Leonora decide di ritirarsi, qui ospedale di fortuna con suore/infermiere povere in canna, accoliti del Conte contro clown di Manrico, mitra e pistole contro attrezzi di giocoleria. Il resto avviene all'esterno, l'interrogatorio di Azucena ad esempio sotto un cavalcavia di cemento; tutto mentre il grande led wall alle spalle del cast, a cura di D-Wok, proietta immagini desolate di rovine di edifici in fiamme, una ruota panoramica che fa pensare a Prypjat, un cielo plumbeo, nubi di ceneri grigie che evocano La strada di McCarthy, le torri atterrate delle puntate di Ken il guerriero (né scandalizzi il riferimento a un cartone animato: è pur sempre un esempio visivo), la città di Centralia in Pennsylvania. Ma è proprio qui che il Livermore style sa di già visto: il Macbeth scaligero del 2021 occhieggia ad ogni scena: opulenza dei palazzoni da una parte (nei quali si poteva entrare, a differenza di qui), realtà distopica e nebbiosa dall'altra. È pur vero che il tendone da circo nel Macbeth non c'era, ma poco importa. A proposito, a un certo punto anche il tendone, che prima si vedeva sullo sfondo, inizia a bruciare: e cioè quando il dramma di Manrico e Azucena si fa inesorabile – la loro realtà che va in fumo –: giusta intuizione, assieme all'associazione “gitani (oggi rom) – nomadi – itineranti come il circo”; che poi i campi nomadi stanziali siano realtà fisse ai margini delle città, è cosa nota e incoerente col concetto di nomadismo, fenomeno più diffuso un tempo che adesso; ma è coerente l'idea del suburbe come luogo di confine, di guerriglia, adatto per un tendone da circo – l'idea insomma di luogo “esotico” come poteva apparire la Biscaglia del ‘400 al pubblico del 1853.

Quando le immagini non sono di desolazione, o di notturni lunari, sono di nubi di fuoco, masse magmatiche rosse, viola, nerastre, prevedibilmente sui racconti di Azucena che coinvolgano roghi e fiamme; se non altro, grandiose in quanto spettacolo in sé e a loro modo coinvolgenti, soprattutto se lumeggiati ad arte dalle luci di Antonio Castro. Sospesa in tutto questo è la situazione che si viene a creare in Tu vedrai che amore in terra: mentre Leonora canta, le luci in sala si accendono, cala dall'alto un sipario e le quinte laterali si piegano verso la platea e la riflettono, dato che sono specchi (ma perché?). Così come sospesi in freeze sono i movimenti scenici di tutti mentre, sempre Leonora, canta Sei tu dal ciel disceso: nel bel mezzo di un rapimento, soffermarsi a pensare che il proprio amato arrivi nel posto giusto al momento giusto è cosa melodrammatica ma poco realista: il che, purtroppo, se già è un difetto congenito dell'opera, che ne raffredda la concitazione, con il congelarsi dei movimenti spinge lo spettatore inevitabilmente al sorriso, sottolineando l'inverosimiglianza e sottraendo il coinvolgimento.

Fortuna che il versante esecutivo convince di più, pur con qualche limite. I previsti Markus Werba ed Eleonora Buratto, che avrebbero dovuto debuttare nei ruoli del Conte di Luna e di Leonora, sono rimpiazzati validamente da Giovanni Meoni (che a sua volta sostituisce l'indisposto Franco Vassallo, forse per aver interpretato Falstaff la sera prima a Busseto) e da Francesca Dotto. Il primo è un villain corretto, timbrato, di stampo sufficientemente nobile da accordarsi col personaggio, ancorché un poco ordinario, tanto nel canto, quanto nel fare sbrigativo sulla scena, forse perché così voluto dalla regia, che lo vede vestito di tutto punto in completo e cravatta nera, a impartire gli ordini dal cellulare; banco di prova è ovviamente Il balen del suo sorriso, svolta con buona inflessione di accenti. La seconda restituisce l'idea di una Leonora tutta d'un pezzo, volitiva, determinata, e il suo canto si accorda con questa idea, ben saldo nel registro medio, talvolta un po' decentrato negli acuti in leggero sforzato, ma in generale di buona tenuta complessiva; ciò non le impedisce di essere interprete felice ed efficace, con acme nel IV atto, in un'appassionata D'amor sull'ali rosee.

Anche la prestazione di Riccardo Massi non sfigura. Il suo Manrico non è un campione di eroismo, vocalmente parlando: preferisce esprimersi con cifra più spiccatamente lirica, grazie al suo timbro chiaro; il suo «Empi, spegnetela» suona più come una supplica che come un imperativo. Ciò non impedisce al suo strumento di raggiungere gli acuti necessari quando e dove deve: il suo Di quella pira ha la sua brava puntatura nella ripetizione, peraltro variata, anche se in modo un po' abbottonato, ma non guerresca. Non mancano, esprimendosi con lirismo, riusciti passaggi d'espressione: Ah, sì, ben mio e Riposa, o madre arrivano con buone intenzioni, canto morbido e ben modulato. Un Manrico insomma equilibrato, scevro da eccessi, ma che si sarebbe voluto un po' più virile. Chi invece tratteggia un Ferrando potente, personale e vivo, con caratteri di acceso rancore per la zingara, di fedeltà assoluta al Conte e più che volitivo nel portare a termine la sua missione, è Roberto Tagliavini, che mette il suo timbro scuro, l'emissione carnale e istintiva del fonema (talvolta un po' incontrollata, ma che dà quel tocco di sfrontato, di spregiudicato alla sua lettura) e la sua voce ampia, cavernosa e profonda al servizio di un ruolo che a quanto pare sente suo, che interpreta con convinzione e che ne fa, in questa produzione, il migliore del cast, a parimerito con Clementine Margaine. La sua Azucena scarmigliata, un po' Anna Magnani, un po' Elena Bonham Carter, oscilla tra visionarietà e arrendevolezza, la prima nelle rievocazioni della madre, in un Stride la vampa di grande intensità (superata da un Condotta ell'era in ceppi che ha letteralmente afferrato alla gola chi scrive), la seconda in un Ai nostri monti suadente e cullante; ben fatto l'interrogatorio, anche come dominazione della scena in veste di attrice. Siamo di fronte a una professionista con grandi mezzi espressivi e con capacità di utilizzarli, con gravi sonori e acuti puliti e senza spigoli; mezzi che però talvolta le fanno arrotondare per eccesso l'enfasi di alcune scene, che il “figlio”, per contrasto, arrotonda per difetto.

La Ines di Carmen Lopez, allieva dell'Accademia Verdiana, il Ruiz di Didier Pieri, il Messo di Enrico Picinni Leopardi e il Vecchio Zingaro di Sandro Pucci costituiscono l'adeguato comprimariato che, con il Coro del Teatro Comunale di Bologna, istruito da Gea Garatti Ansini, completano le maestranze di questa produzione, recensita nella recita di domenica primo ottobre 2023. Del Comunale di Bologna è pure l'Orchestra, tutti sotto la bacchetta di Francesco Ivan Ciampa, che si avvale dell'edizione critica stampata da Ricordi a cura di David Lawton. Lo avevo lasciato a Genova con un Don Pasquale un po' troppo fragoroso; lo ritrovo con un Trovatore molto più a fuoco, con dinamiche e concertazione di opportuna intensità, stacco di tempi consueti, pur con originali accelerazioni (la scansione ritmica del Miserere, rapida e marcata) e decelerazioni (slargo di agogica in Chi del gitano). A lui, come al resto del cast, si indirizzano da parte del pubblico applausi caldi e prolungati, con reazione migliore di quanto viene riferito dai resoconti della prima, domenica 24 settembre 2023.

Christian Speranza

6/10/2023

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.