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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Innsbruck riscopre la Didone abbandonata di Mercadante

Musica notturna al castello di Ambras con Boccherini

Compositore tanto trascurato nel nostro tempo quanto stimato nella sua epoca, Giuseppe Saverio Mercadante è autore di un vasto corpus operistico del quale attualmente viene ricordata solo una esigua manciata di titoli. Portando in scena la negletta Didone abbandonata il direttore artistico delle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik Alessandro De Marchi intende accendere i riflettori su un compositore di grande rilievo, puntando inoltre l'attenzione su un momento di transizione particolarmente interessante in ambito melodrammatico. Per far ciò devia dai consueti percorsi del barocco musicale, scegliendo di rileggere il repertorio belcantistico dell'Ottocento alla luce della propria peculiare sensibilità. Estrema declinazione del gusto metastasiano, seppur aggiornato ai canoni coevi dal rifacimento librettistico di Andrea Leone Tottola, la Didone abbandonata si trova in bilico fra due mondi. Gli stilemi linguistici, qui ancora quasi totalmente rossiniani, additano l'avvento di nuove forme e traguardi. La prima esecuzione risale al carnevale del 1823, al Teatro Regio di Torino. Pochi anni ancora e Rossini, con il Guglielmo Tell, edificherà il suo più grande monumento al neoclassicismo musicale, intriso di un particolare afflato naturalistico, mettendo la parola fine alla propria straordinaria esperienza teatrale. Nella Didone ci troviamo all'interno di un mondo nel quale il retaggio del pesarese è enorme. La concertazione di De Marchi, alla guida dell'Academia Montis Regalis, riconduce il dettato musicale alle sue giuste proporzioni. La direzione è attenta agli equilibri con il palcoscenico, sempre ben calibrata nel donare giusto risalto alle voci. Una esecuzione di estremo nitore ma non pallida nei propri valori emotivi. Spiace allora notare alcune disattenzioni dei corni, in particolare durante l'ouverture, che guastano un lavoro altrimenti pregevole. Viktorija Miškunaité è una Didone dal virtuosismo facile e dalla notevole presenza scenica, ma anche dal timbro a volte secco e dalla dizione faticosa. La visione registica la trasforma in una figura frivola e superficiale, contraltare di un Enea misurato e nobile, nel complesso ben cantato da Katrin Wundsam. Carlo Vincenzo Allemano (Jarba) si conferma interprete di grande carisma e personalità, convincente anche quando l'impostazione dello spettacolo lo costringe a esternazioni esagerate e sin troppo istrioniche. Inadeguato l'Araspe di Diego Godoy, apprezzabili l'Osmida di Pietro di Bianco e la Selene di Emilie Renard. Ottima infine la prova del coro.

Regia affidata al nome altisonante di Jürgen Flimm. All'inizio dell'opera Didone sta edificando Cartagine, simbolo della propria gloria che si vorrebbe imperitura. Flimm mette in scena una sorta di cantiere eternamente ruotante, con tanto di operai impegnati attorno a una betoniera. Il coro abbigliato con divise che richiamano la legione straniera sembra echeggiare vecchie pellicole di Laurel e Hardy. Il registro aulico e tragico viene sommerso da un crescendo di situazioni comiche e grottesche, quasi a sottolineare come il serio si mescoli inevitabilmente con il faceto, in un'ottica di shakespeariana complessità. Eppure resta l'impressione di uno spettacolo ondivago e irrisolto, dall'emotività instabile, privo di una vera idea che sostenga in maniera adeguata la drammaturgia. Nel finale i coristi puntano i loro fucili verso la platea, rendendo gli spettatori partecipi del dramma che si sta consumando. La gloria nascente di Cartagine viene annientata da Jarba, amante frustrato e tiranno sanguinario. A Didone, abbandonata da Enea, resta il solo rifugio della morte.

Il pubblico dimostra di apprezzare l'esecuzione musicale, mentre lo spettacolo viene accolto da numerosi dissensi.

La nutrita programmazione concertistica del Festival ha fornito l'occasione di ascoltare un altro compositore prigioniero di un'immagine stereotipata, lontana dalla realtà dei fatti, come Luigi Boccherini. In particolare si è sempre ritenuto il suo trasferimento alla corte di Madrid come un momento di marginalizzazione, quasi di esilio in un panorama secondario. Niente di più falso. L'estraneità al sonatismo viennese non può giustificare il disinteresse verso un compositore che seppe intraprendere percorsi originali, scrivendo pagine inedite nella storia della musica. Basta ascoltare le opere proposte dall'Accademia Ottoboni al castello di Ambras per rendersene conto. Nell'ambito della musica da camera, Boccherini rivela un genio peculiare e sorprendente. Si pensi alla Musica notturna delle strade di Madrid. Qui l'autore mette in scena una trama finissima, intessuta di ispanismo e di cromatismi degni di un Goya. Il quintetto per flauto G. 426 e quelli per chitarra G. 451 e G. 448 ben evidenziano le particolarità di una scrittura luminosa e imprevedibile, colma di spirito rococò ma capace di improvvise vette drammatiche, animata nel complesso da una grande varietà. Per questo Boccherini resterà senza eredi, figura misteriosa e affascinante proprio per la sua unicità. L'Accademia Ottoboni rende pienamente giustizia a questa musica. Ovazione del pubblico in particolare per il Quintetto che si conclude con il celebre Fandango, eseguito con brillante virtuosismo e trascinante vitalità.

Riccardo Cenci

25/8/2018

Le foto del servizio sono di Rupert Larl.