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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Un giorno sol “non” durò

La Sonnambula di Bellini al Teatro Lirico di Cagliari

Dopo Norma (La Scala 26 dicembre 1831), La Sonnambula (Carcano 6 marzo 1831) è senz'ombra di dubbio l'opera più popolare di Bellini. Nel volgere di un anno appena il non ancora trentenne Catanese compone per Milano, con stupefacente energia creativa, i suoi due melodrammi maggiori (in una triade di là da venire con i futuri Puritani). Tanto diversi eppure destinati alla stessa protagonista, la poliedrica, ormai mitica Giuditta Pasta.

Oserei dire che, ancor più dell'elusiva Straniera di due anni prima, La Sonnambula si presenti come un ingannevole melodramma “facile”. Come ha spiegato Davide Annachini, a commento dell'edizione fiorentina di un trentennio fa, «il problema di un'opera come La Sonnambula sta nel fatto di essere tutt'altro che facile da eseguire, per quella delicatissima cifra elegiaca che la pervade in cui né le situazioni né la musica offrono momenti di grande sostegno drammaturgico, ma al contrario un linguaggio sottilissimo di sfumature, di piccolissimi accenti, di ineffabile intimismo dalla problematica restituzione. La difficoltà sta di conseguenza nell'evitare qualsiasi forzatura stilistica nei confronti di una scrittura così pudica e nel rendere questa apparente semplicità con naturalezza esecutiva. Chi non riesce a cogliere la duplice difficoltà vocale ed espressiva della Sonnambula non può nemmeno capirne la cifra tipicamente primottocentesca, fatta di un lirismo trasognato, di una malinconia rarefatta, di una nobilissima semplicità e può facilmente cadere nell'errore che si tratti di un'opera dai toni uniformi, di scarsa vitalità scenica e forse un tantino noiosa.» (“L'Opera”, marzo 1991).

Già la “convenzionale” Svizzera in cui è ambientata è in realtà più cisalpina che transalpina, ché vi si riconosce in trasparenza la stessa Lombardia lacustre, poi agreste nell'imminente contrada “basca” dell'Elisir d'amore: il sarto in entrambi i casi si chiama Felice Romani, abile confezionatore dei due libretti. Nell'allestimento di Bepi Morassi, proveniente dalla Fenice di Venezia, l'Elvezia belliniana è talmente “rivisitata” che stentiamo a riconoscerla (per non dire che non la riconosciamo affatto). Che ci starebbero a fare il mulino, il fonte, la fattoria, visto che ci troviamo in una località sciistica degli anni Trenta del Novecento? Siamo infatti nell'albergo di Lisa - rivale sfortunata di Amina - tra le più elevate sommità alpine innevate, a cui si giunge, come fa il conte Rodolfo, non in carrozza bensì in funivia e debitamente bardati di sci. Ma è disponibile anche il pullman. Sostanzialmente La Sonnambula è un'opera seria a lieto fine. Bellini non era propenso al giocoso tanto meno al comico dopo il doveroso esordio di fine studi dell'Adelson e Salvini (1825). Se fosse vissuto più a lungo, forse non si sarebbe più cimentato nel semiserio, anche perché, a differenza di Rossini e di Donizetti nonché dell'aborrito concittadino Pacini, non sapeva ridere!

Morassi si sente autorizzato – e lo spiega nel programma di sala – a impreziosire la “scarna” trama di piccoli dettagli da commedia borghese con sfumature da cinematografia di Lubitsch fino all'intraprendenza erotica del conte, che nella sua camera da letto si vede spuntare inattesa la dormiente protagonista. Quando le cronache teatrali ci riferiscono salaci dell'intollerabile dissacrazione sadomasopasoliniana della Tosca traghettata da Bruxelles a Barcellona, non infieriremo certo sulla rivisitazione di Morassi. Solo che Bellini non sarebbe stato però d'accordo. Ma la conduzione dei movimenti dei singoli e delle masse, figuranti compresi, è sciolta e brillante. Le scene sontuose di Massimo Checchetto e i bei costumi di Carlos Tieppo erano egregiamente valorizzati dalle luci di Vilmo Furian riprese da Andrea Benetello.

Il ventiseienne direttore Diego Ceretta ha avuto a disposizione nel secondo cast artisti anagraficamente molto freschi. Vale la pena di ricordare che al battesimo della scena, nel 1831, il basso cremonese Luciano Mariani, quale attempato conte Rodolfo, era coetaneo di Bellini, mentre i giovanissimi innamorati avevano rispettivamente: la Pasta (Amina) 33 anni e Rubini (Elvino) 37 anni. Ceretta, in questa sua prima Sonnambula, si destreggia accortamente coadiuvato dalla valente orchestra cagliaritana, a cui imprime una lettura sensibile e cangiante, equilibrata e screziata, con la puntuale rispondenza degli strumenti.

Da protagonista, il soprano Laura Esposito ha reso appieno l'incanto, la dolcezza, la passione nonché la sofferenza e la vulnerabilità dell'innocente Amina non solo nelle arie e nei duetti celeberrimi, dove chiunque è atteso al varco, ma anche negli ensemble e nei recitativi con ammirevole padronanza dei registri ed efficace palette di sfumature. Suo partner all'altezza, senza contare la rispettabile statura, si è rivelato il tenore franco-congolese Patrick Kabongo, delicato ed elegante anche nello svettare della tessitura. Ma le tinte delicate gli si addicono di più delle “altitudini”. Quanto al basso Francesco Leone, aggraziato e autorevole conte Rodolfo, ha appena imboccato una promettente carriera di padri nobili. Degli altri non si può dire che bene e in un'opera come questa si verifica l'importanza dei vari secondi ruoli. A cominciare dalla vivace e pungente Lisa, l'albergatrice, del soprano Michela Varvaro, che, dopo la sortita nel primo atto, non si è sottratta all'aria del secondo. A seguire la trepida e materna Teresa, che aveva adottato l'orfanella Amina, del mezzosoprano Irene Molinari, il sagace e simpatico Alessio del basso Andrea Porta, con lo scanzonato e festevole notaio del tenore Andrea Schifaudo. Il Coro della Casa, diretto da Giovanni Andreoli, si è fatto onore nelle due imponenti pagine corali come nel resto dell'opera.

La vasta platea del Teatro Lirico era adeguatamente affollata e, per una città come Cagliari, che conta 160 mila abitanti oltre ad un ampio e popoloso hinterland, mi sembra un dettaglio confortante.

Fulvio Stefano Lo Presti

8/6/2022

 

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