Como riscopre Turanda
Dal filone aurifero degli autori e dei lavori ingiustamente dimenticati, specie nel campo dell'opera italiana, di cui resta ancora molto da (ri)scoprire ma da cui sempre più si estraggono pepite preziose, è recentemente emerso l'unico esito teatrale di Antonio Bazzini (1818-1897), violinista e compositore che, in anticipo sulla generazione che rinfocolò il sinfonismo in Italia, si dedicò principalmente al repertorio strumentale e alla sua diffusione in qualità di concertista itinerante. E così, due mesi prima che Verdi presentasse il suo Don Carlos a Parigi, nello stesso anno, il 13 gennaio 1867, Bazzini presentava alla Scala di Milano la sua Turanda, azione fantastica (che corregge l'originale per musica, barrato nel manoscritto) in quattro parti su libretto di Antonio Gazzoletti, che si firmava con lo pseudonimo anagrammato di Gian Ottone Tazzoli, di professione avvocato e che il librettista lo faceva un po' come secondo lavoro (scrisse l'anno dopo anche La schiava greca per la musica di Cipriano Pontoglio, 1831-1892, che si conserva alla Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, dato che Pontoglio nacque in provincia di Bergamo; un discorso che ci porterebbe lontano…). Era la prima volta che la fiaba di Carlo Gozzi veniva trasposta per il teatro musicale; lo farà più tardi anche Busoni, nel 1917. Nel 1873 Bazzini assunse la direzione del Conservatorio di Milano: curioso che tra i suoi allievi ci fossero anche Alfredo Catalani e un certo Giacomo Puccini…
Come spesso accadeva, poche recite, qualche critica maligna, a firma ad esempio in questo caso di Filippi e Ghislanzoni, e l'opera scompariva. Letteralmente. L'eredità musicale di Bazzini venne passata dalla sorella del musicista alla Società dei Concerti di Brescia, sua città natale, e di lì all'Istituto Musicale Venturi, l'attuale Conservatorio. Delle parti e degli spartiti approntati per la prima scaligera dall'editore Lucca, rivale di Ricordi, si persero le tracce; e si persero anche della partitura autografa, ritrovata solo in tempi recenti nei magazzini della Biblioteca del Conservatorio di Milano. Il ritrovamento ancor più recente del libretto della prima, infine, con tanto di indicazioni autografe per regia, scene, movimenti e luci, ha indotto alla vera e propria messinscena, concretizzatasi – guarda un po' a volte il destino – grazie all'edizione critica di Ricordi e al lavoro degli allievi del Conservatorio di Como, che il Direttore, Vittorio Zago, la sera di domenica 26 ottobre 2025, di cui si riferisce, ringrazia dal palco del Teatro Sociale della stessa città.
Il progetto è lodevole non solo per la riscoperta di un lavoro che perierat et inventus est, ma per la sinergia che ha visto cooperare studenti, insegnanti e ricercatori a fini non solo didattici o speculativi, ma anche artistici. Le scene, compresi i praticabili e le strutture visibili sul palcoscenico, i (sessantanove!) costumi, il trucco, il parrucco e i movimenti scenici sono stati concepiti dagli studenti della Scuola di Scenografia del Biennio Specialistico del Secondo Corso di Teatro e Costume per lo Spettacolo dell'Accademia di Belle Arti di Brera, ed ivi realizzati. Grazie alla regia di Stefania Panighini, coadiuvata dall'assistente Ai Takagi Donno, è risultato uno spettacolo nel complesso fresco, giovanile, ben coordinato, moderno, snello e funzionale, oltre che rispettoso della drammaturgia dell'opera. Poco importa che non fossero riprodotte le quinte e i fondali immaginati alla prima scaligera: le azioni si confanno al dettato scenico, vi è aderenza fra il parlato e il fatto. In più, un tocco di dark ha reso il tutto ancor più accattivante. La maggior parte dello spettacolo è immerso nell'oscurità, ravvivata da luci sapienti e ben dosate, con sagaci giochi d'ombra: luci e ombre che si riflettono sui toni cilestrini della veste di Ormut, sui rossi accesi dei costumi di Turanda e Aldelma, sui marroni di Nadir e Cosroe, tutti in linea coi personaggi che impersonano, compresi alcuni tocchi psicologici: a inizio spettacolo Turanda si muove entro una sorta di armatura, vagamente una gabbia pensile o una cheba, simbolo non solo della prigione sentimentale nella quale si isola e si autoconfina, ma anche di tortura con cui ella stessa inconsciamente si strazia; nel corso della recita se ne libera, rimane in rosso e poi e verso la fine in bianca vesta, in segno di resa totale all'amore – così come Adelma, che nel dichiarare il suo sentimento per Nadir si dispoglia della cappa rossa.
 Una coreografia basata su sfere luminose che vengono passate di mano in mano apre lo spettacolo sulle note del Preludio. E a parlare di coreografie, di suggestivo impatto risulta anche quella, semplice ma efficace, dell'evocazione degli spiriti, dove figure femminili biancovestite versano a turno del liquido in un recipiente sopra al quale Ormut compie il rito: qualcosa fra L'apprenti sorcier visto con gli occhi di Disney e la «polta infernal» di verdiana memoria, con un tocco di sovrannaturale alla Hoffmann o alla Gautier. Le scene, infine giocano su pochi elementi ben disposti, qualche gradinata, qualche metro di tessuto, il tutto, si ripete, nella semioscurità che rileva e scolpisce con le ombre le forme e su sfondi neri a motivi astratti, ben armonizzati cromaticamente con l'insieme. Un palcoscenico ben gestito, con pieni e vuoti ben distribuiti, suggerisce con fluidità movimenti scenici certo teatralizzati ma non troppo innaturali, conformi a quel quid di magico e irreale che la vicenda comporta, e che lo spettatore accetta prima ancora di entrare. Spiace solo che i musicisti della banda in scena, davvero nutrita (quindici elementi), coi loro strumenti di foggia moderna e vestiti sobriamente di nero, abbiano apportato un tratto di connessione al reale che ha smagato la suggestione teatrale.
La Turanda di Bazzini si ispira meno fedelmente alla fiaba di Gozzi rispetto alla più nota versione pucciniana, e risente pienamente dell'epoca in cui è stata scritta. Niente Cina, stavolta. Siamo a Modain, capitale della Persia. E niente Mandarino. Al suo posto, un coro che inneggia al Sole. Il Coro, qui come altrove, è quello del Conservatorio Giuseppe Verdi di Como, ben preparato e ben amalgamato da Matteo Castelli e Domenico Innominato. Il primo atto, anzi, la prima parte, ricalca la trama del primo atto di Puccini, e come quello termina col triplice colpo di gong, in questo caso sulla scudo del Sole. A ritrovarsi casualmente nella folla sono qui Nadir, principe indiano caduto in disgrazia, e il suo vecchio maestro, quasi padre adottivo, Ormut, ora gran sacerdote del regno e dotato di poteri magici. Notiamo che qui Nadir è completamente orfano: la versione di Bazzini è perciò più cruda di quella di Puccini. E fa anche a meno dei tre grotteschi ministri. Anche qui, l'apparizione di Turanda, qui accompagnata fin da subito dal vecchio padre Cosroe che rispetto all'Altoum pucciniano non mostra i segni di una vetustà senza tempo – vagheggia ancora il suo diventare nonno –, fa innamorare a prima vista Nadir. La seconda parte mette in scena la soluzione dei tre enigmi, musicalmente uno diverso dall'altro, a differenza di Puccini, con enfasi sul terzo, che qui sono «l'anno» (l'unico uguale all'originale di Gozzi), «l'aratro» e «l'occhio», e si conclude, come il secondo atto pucciniano, con la controproposta di Nadir di scoprire, pena la morte, il suo nome. Gli enigmi sono in questo caso più legati al mondo agricolo, alla realtà contadina; ma, quasi come se l'inconscio già agisse al posto della principessa, Turanda, apparentemente per ammaliare e confondere ancor più il principe, si toglie il velo, qui una maschera dorata, per mostrargli il suo sguardo: ed è quasi come suggerirgli la soluzione del terzo enigma.
A sapere in segreto il nome dell'ignoto non è quindi Liù, ma Ormut, che nella terza parte – e qui iniziano le differenze sostanziali – comanda agli spiriti, durante un'evocazione magica, di non rivelare il segreto pur se interrogati dalla principessa. Ma un'altra donna innamorata segretamente di Nadir c'è: è Adelma, la schiava di Turanda. La quale si rende, obtorto collo, complice nel somministrare a Nadir un sonnifero. Nel sonno, il principe sogna Turanda e le rivela il nome. La principessa è lesta a impadronirsi del segreto e, nella quarta parte, sbigottisce Nadir rivelandogli, in un colloquio privato, di conoscerlo. Nadir sguaina il pugnale e si accinge a togliersi la vita, ma Turanda lo ferma e, agli astanti accorsi alle sue grida di soccorso, rivela a tutti il suo amore, con conseguente lieto fine.
Per essere la sua prima e unica esperienza operistica, la musica di Bazzini dimostra un non comune senso teatrale, in parte proiettato verso tendenze moderniste, che al volgere del mezzo secolo iniziavano timidamente a fare a meno del pezzo chiuso, in parte dimostrando di padroneggiare la tecnica di scrittura tipica del genere, come il grandioso Finale primo o il ancor più il secondo, in ossequio ai classici concertati di fine atto, con tanto di stretta conclusiva. Da notare anche l'attenzione riservata alla trama polifonica, notevole per essere in ambito operistico e derivante dallo studio giovanile di Bach a Lipsia, e agli impasti timbrici, pur restando in uno strumentale tipico della seconda metà dell'Ottocento.
La struttura del testo rivela una mano non abituata a stendere libretti: i momenti solistici, ancora d'obbligo in questa fase evolutiva del melodramma, si concentrano nella terza e quarta parte, come se le “cavatine” venissero posposte. Prima e seconda parte rivelano infatti un fluire unitario dell'azione, e il pezzo solistico fatica a incastrarsi – come fatica anche dopo, salvo obbedire alle convenzioni degli exploit. Ma ciò non è dopo tutto da denigrarsi, permettendo alle voci di scaldarsi per bene prima di dare il massimo. Il cast si compone di voci giovani, che in parte devono ancora raggiungere il giusto grado di maturazione, ma che hanno già tutte le carte in regola per esibirsi in produzioni di questa importanza e che si configurano come promettenti professionisti della lirica di domani. Ormut è Yonghyun Kim, che si distingue per una non comune autorevolezza nel ruolo, in grazia non solo di una buona prestazione attoriale, ma anche e soprattutto di uno strumento possente, cavernoso e risonante, di ampio volume e ben proiettato, con notevoli risultati nel registro medio-grave. Alcune relative difficoltà nel raggiungimento delle note più acute non inficiano una prestazione di alto livello, che si esplica soprattutto, anche nella caratterizzazione psicologica del personaggio, a inizio terza parte, nella scena e aria Qui tra poco verrà… L'amo con cuor d'artefice. Molto ben riuscite e suggestive anche le tre invocazioni agl'inferi.
 Restando nei gravi, bene anche per il Cosroe di Minsu Kim, voce rotonda, di buon volume, un velluto vocale malleabile e omogeneo, senza apparenti difficoltà nei passaggi di registro, di bel timbro brunito. Si cala abilmente nel ruolo, impersonando un re sulla soglia della vecchiezza ma non squarquoio, che si appoggia al suo ramo-bastone ma che ha ancora la forza di farsi valere. La sua prestazione migliora nello svolgersi della vicenda, ma se già fin dal suo esordio, Al fato / Comune, all'ordin saggio, dimostra doti di apprezzabile cantabilità, nel prosieguo, coi suoi interventi nella terza e quarta parte, ha modo di mettere in luce bei colori e interessanti sfumature.
La terna di voci maschili si corona col Nadir di Weihao Du, tenore di stampo lirico, versato sembrerebbe a un belcantismo di stampo languido (Ernesto donizettiano e simili, con un po' più di grazia, o un Bellini, con molta lungimiranza). Ha bisogno di almeno tutta la prima parte per scaldarsi a dovere. Quando però entra in temperatura, dimostra voce calda, di buona fibra, buon squillo e buona luminosità: qualità che, si, sente, potranno migliorare nel tempo, assieme all'emissione, ancora un po' trattenuta, che fa effetto un poco sforzato, e alla proiezione, non ancora ottimale. Bene invece articolazione e fraseggio, dizione apprezzabile considerando l'italiano non sua lingua madre. Si fa applaudire soprattutto nella terza parte, sia con belle e morbide nuance in Ella è qui… , quando cade preda del deliquio indotto dal sonnifero, sia in tutto il finale.
E poi c'è lei: la protagonista. La prima Turanda moderna è Anna Cimmarrusti, voce di notevole peso drammatico, solida, senza spigolature, piuttosto ben strutturata e calda, sicura negli acuti e con un bell'affondo al grave, emissione precisa in tutti i registri e un'articolazione che denota comprensione delle arcate sintattiche. La timbrica lucida, smaltata, si affianca alla capacità di essere utilizzata tanto in manifestazioni di forza, quanto di dolcezza e di riflessività (inizio quarta parte). Questo perché Turanda, più di tutti, è il personaggio che subisce un'evoluzione psicologica, da principessa di gelo (che qui non ha nemmeno l'attenuante di un'ava violentata, ma semplicemente non si piega al ruolo di incubatrice di figli, come ben sottolinea Stefania Panighini, regista e responsabile del progetto) a donna innamorata. E se anche qui, alla luce della fin troppo dibattuta questione pucciniana, pende il dubbio se tale trasformazione (allo stesso modo repentina e condensata in mezzo atto) sia stata attuata o no con verosimiglianza, è da sottolineare la difficoltà interpretativa di chi questa trasformazione deve renderla sulla scena. Cimmarrusti adotta un taglio scopertamente teatrale, e in ciò avrà tratto beneficio da lezioni di recitazione nel rendere spontaneo in massimo grado il disarmo di Nadir, nel momento in cui gli strappa il pugnale di mano e lo fa volare lontano: un gesto che nessuna parola può eguagliare e che svela l'amore provato per lui.
Curioso come l'accostamento di due timbriche diverse possa far risaltare il valore di entrambe, come due gemme su un panno. Con la Turanda della Cimmarrusti duetta infatti l'Adelma di Aziza Omarova (che si alternerà nel ruolo con Lee Juhyeon). Si librano dalla sua gola armonici di qualità sopraffina; si ha una voce sopranile più lirica, più morbida, più pastosa, anche più delicata; una cera plasmata con gusto; rifugga però da certe forzature, specialmente di emissione e di acuti, che rischiano in un attimo di farla uscire da questo incanto e di relegarla nello stridulo. Raffinatezze e screziature si notano soprattutto nel duetto col coro nella terza parte, Un giorno alla rosa, quasi una ballata col refrain della massa che risponde, e nel duetto con Turanda poco dopo.
Per questo cast, la Filarmonica del Conservatorio Giuseppe Verdi di Como svolge un lodevole lavoro di sostegno, coadiuvata dall'ottima concertazione del maestro Bruno Dal Bon, che tributa il giusto rilievo alle voci pur senza assoggettare l'orchestra a mero accompagnamento. Da segnalare l'impiego in buca dell'oficleide, raddoppio del registro basso degli ottoni, come prescritto in partitura, di cui si poteva sfogliare la riproduzione nel foyer. Applausi per tutti accolgono felicemente la fine dello spettacolo, che verrà replicato lunedì 8 dicembre al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano. Chi può non se lo perda.
Christian Speranza
28/10/2025
Le foto del servizio sono del Conservatorio di Como.
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