RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Un ajo imbarazzato (e non solo lui)

Interrogazione: – Mi citi un'opera lirica in cui compaiano i nomi di Gilda e Maddalena. – Rigoletto. – Bene. Un'altra? – …

Per trovarla, dobbiamo risalire al 1824. L'ajo nell'imbarazzo, melodramma giocoso in due atti su libretto di Jacopo Ferretti e musica di Gaetano Donizetti, contiene infatti sia il nome di Gilda, figlia del fu colonnello Tallemanni, amata dal marchese Enrico, anzi, già di lui sposa segreta da un anno, prima dell'inizio dell'opera, come si viene a sapere, e madre di un figlio, Bernardino; sia il nome di Maddalena, balia di Gilda quand'era piccola, solo menzionata. Ma nell'Ajo troviamo anche il marchese Giulio Antiquati, padre del suddetto Enrico e anche di Pippetto, il fratello minore un poco tardo, infatuato della vecchia cameriera Leonarda; e poi lui, l'ajo, ovvero il precettore, Don Gregorio Cordebono. Convincere il burbero marchese – convinto che segregare i suoi due figli sia l'unico modo (a quanto pare poco efficace) per evitare che vengano in contatto con le donne, scaturigine di guai e di amarezze – a benedire l'unione di Enrico e Gilda, sarà la missione cui, suo malgrado, attenderà Don Gregorio, in una trama in cui tre quarti dell'azione è concentrata nel primo atto e lo scioglimento e l' happy ending sono riservati per il secondo. La fonte, che all'epoca della composizione del lavoro di Donizetti era già servita ad almeno cinque adattamenti musicali (Giuseppe Pilotti, Bologna 1810; Emanuele Guarnaccia, Venezia 1811; Filippo Celli, Venezia 1813; Giuseppe Mosca, Napoli 1815; Davide Nicelli, Piacenza 1824-25) è l'omonima commedia del Conte Giovanni Giraud, di famiglia francese naturalizzata romana.

Per l'edizione 2022 del Donizetti Opera Festival, a quel 1824, a quel 4 febbraio 1824, per la precisione, quando al Teatro Valle di Roma venne data per la prima volta, risale anche Maria Chiara Bertieri, curatrice dell'edizione critica cui è toccato il compito di districare il complesso viluppo di un'opera di cui a tutt'oggi non si è in possesso dell'autografo, ricostruendo la scansione dei numeri di cui si componeva la versione originale dell'opera, prima che la ripresa nel 1826 per il Teatro Nuovo di Napoli, col titolo di Don Gregorio – rifacimento parziale e non semplice riallestimento su altra piazza: prassi dell'epoca –, venisse a imporsi come quella di più ampia circolazione, con aggiunte, interpolazioni e la sostituzione dei recitativi con dialoghi parlati in napoletano (in seguito tradotti in italiano). In particolare, grazie al libretto stampato per la prima romana e a una partitura della copisteria Cencetti di Roma con correzioni di pugno di Donizetti (non l'unica fonte consultata, ma certamente la più importante), è stato possibile introdurre tre brani che si ascoltano qui per la prima volta, restituendo il più fedelmente possibile la fisionomia di quello che potremmo definire l'Ur-Ajo: l'aria di Don Giulio Insomma, alfine – Deh! Scusate, nel primo atto; il duetto Cara mia, ci vuol pazienza, nel Finale primo; il terzetto-duetto Signor… Se parli o perfida nel secondo atto.

Tantus labor non sit cassus! La restitutio ad integrum sul piano musicale, servita con cura e dedizione dal giovane direttore Vincenzo Milletarì alle redini dell'Orchestra e del Coro Donizetti Opera (quest'ultimo diretto da Claudio Fenoglio) non trova altrettanta aderenza filologica nella regia di Francesco Micheli, direttore artistico della Fondazione Teatro Donizetti. Con un abbondante uso di grafica, proiezioni e figuranti (video concept by Studio Temp, animazione di Emanuele Kobu), l'opera viene ambientata in un distopico 2042, un'epoca impazzita per la nippomania in cui, molto più di adesso, tutto avviene su internet. Don Giulio Antiquati, prendendo spunto dal fatto che nell'opera viene detto che andrà a pranzo dal ministro, è un rampante politico che, dopo essere stato lasciato dalla moglie, si getta a capofitto nella carriera, propugnando idee iperreazionarie e conservatrici, al punto da recludere i figli per proteggerli dalle donne e dal mondo esterno. Suo braccio destro non è più Don Gregorio, ma Greg, non più precettore ma influencer di grido, inventore del “social totale” Facegram (e qui, bisogna darne atto, l'inventiva è sapida, con questa crasi di Facebook e Instagram/Telegram, così come la rivisitazione di Amazon, che diventa ammazza.oh). I personaggi, quindi, su scene asettiche dai colori fluo e psichedelici (Mauro Tinti alle scene, Peter van Praet luci) e consimili costumi (di Giada Masi; ma perché il coro è vestito con tute color arancione Guantanamo?), fanno lezione a distanza con le L.I.M. (lavagne interattive multimediali), secondo quanto è divenuto tristemente familiare dal 2020 in poi; Enrico e Gilda chattano, conoscendosi dapprima sul social e poi di persona (anche perché, fino a prova contraria, Bernardino non può essere stato concepito se non… di persona…). Tutto questo è giustificato da Micheli, intervistato nella monografia dal “Dramaturg” Alberto Mattioli (anch'egli fervente propugnatore delle regie innovative, nonché coadiutore del presente progetto), col fatto che durante la pandemia i ragazzi sono diventati dei reclusi, potendo interagire col mondo esterno solo per il tramite di schermi e social, creandosi degli avatar per potersi far meglio accettare attraverso quel che si mostra e non quel che si è (mi viene in mente proprio Avatar di Théophile Gautier). Tutto arriva a casa comodamente, comprese le portate del pranzo che conclude l'atto primo, qui grazie ad ammazza.oh, nella realtà grazie a Glovo e Just Eat. Di qui al concetto di hikikomori (data anche la nippomania messa in scena, sebbene su questo non venga calcata molto la mano) il passo è breve, ma per fortuna non viene compiuto. Lo spostamento nella realtà distopica futura, espediente comune nella letteratura per mettere in guardia il present day dalle possibili precipitazioni di condizioni sociopatologiche, consente alla regia di esasperare questi aspetti, come in una caricatura in cui un particolare saliente viene accentuato di proposito, prendendone le distanze.

Meno comprensibile è l'accenno finale a una Gilda che, durante il suo exploit finale, un convenzionale elogio delle donne che, gira che ti rigira, son loro a far funzionare il mondo e a muovere gli uomini a loro piacimento, diventa addirittura presidente della Repubblica, con tanto di cartonato di un corazziere e l'immagine del Quirinale sullo sfondo; parte in testa lo slogan: io sono Gilda/(Giorgia), sono una donna Absit iniuria verbis, ma sorge il sospetto che tutto questo contemporaneizzare e contestualizzare (la pandemia, la realtà virtuale, il femminismo, financo un velato accenno alla politica?) voglia forzatamente rendere l'opera in grado di parlare ai giorni nostri e alle nostre generazioni (come se, leggendo in filigrana, non fosse già per sua natura, se si sa leggere) col partito preso di rendere il teatro d'opera valevole ieri oggi e per sempre. Ma se c'è tutto questo bisogno di dirlo in maniera così esplicita, forse significa che il primo a non crederci è il regista stesso…

Il tutto non è che non funzioni, tutt'altro, ha una sua coerenza interna (notevole l'espediente di riprendere Greg/Don Gregorio dalle telecamere di sicurezza mentre preleva il figlio di Enrico e Gilda e lo carica in macchina, nascondendolo nel trasportino di quella barboncina che non esiste e che viene propinata a Don Giulio come frottola per non aprire la porta dietro cui Gilda si è nascosta): ci si chiede soltanto se tutta questa impegnativa profusione di forze valesse la pena di essere messa in atto, dal momento che, se per la prima volta dal 1824 viene rimessa in scena un'opera nella sua versione originale, sarebbe forse il caso di farla vedere, oltre che ascoltare, così come venne concepita dagli autori: varato un primo allestimento di riferimento, stabilito quello che in tassonomia è un olotipo, un grado zero, ci sarà poi tempo di “pazziare”, di attualizzare, estremizzare, deformare (e tradire).

La disamina degli interpreti è presto fatta in una parola: bravissimi. Con riferimento alla terza e ultima replica (escludendo l'anteprima under 30) di venerdì 2 dicembre 2022 nel rinnovato Teatro Donizetti di Bergamo Bassa (novantanovesimo compleanno di Maria Callas, oltre che dodicesimo anniversario della morte di Copland), si è assistito ad uno spettacolo musicalmente vivo, frizzante, capace di catalizzare l'attenzione e – pourquoi pas – il divertimento lungo le sue due ore e mezza senza scadere nella stasi e nella noia. Merito senza dubbio della musica del ventisettenne Donizetti, ancora intrisa di stilemi rossiniani, ma che ha già inforcato l'arcione della vena buffa più autenticamente donizettiana (anzi, è proprio quando smette di essere rossinista di maniera che si impenna), ben condotta, si diceva, dal maestro Milletarì, in grado di avvolgere le voci senza usurpare loro il primato; ma merito anche delle voci stesse. Mattatori della serata sono stati il Don Gregorio di Alex Esposito, dalla debordante verve carismatica aderente alla figura un po' dandy e capricciosa dell'influencer voluto da Micheli, e dalla voce timbrata, potente e ben tornita; e il Don Giulio di Alessandro Corbelli, vocalmente un poco meno prestante e in certi punti come refrattario a entrare nella parte: di fronte a dichiarazioni di ira e sdegno che divampano senza freni – chiaramente nell'ambito di un basso buffo post-settecentesco che abbaia ma non morde –, non si ha adeguata corrispondenza nell'atteggiamento, quasi estraneo alle parole. Ma transeat: vocalmente è comunque in grado di formare con Esposito una coppia equilibrata e ben riuscita. Scoperte promettenti sono gli Allievi della Bottega Donizetti: l'Enrico di Francesco Lucili, dal timbro chiaro, solare, corretto nel suo ruolo e con risorse vocali da coltivare per irrobustire la fibra e consolidare la prestazione, ma già valido sotto molti aspetti, la Gilda di Marilena Ruta, dove invece le risorse vocali paiono essere già mature per ruoli più impegnativi – è sembrato di riascoltare il timbro argenteo e cristallino della kazaka Maria Mudryak esordiente nell'Elisir piacentino del 2014 – con squilli sicuri, acuti ben tenuti e squisita flessuosità belcantista. Bene anche per il Pippetto di Lorenzo Martelli, vestito come i personaggi di Niccolò e Gigetto dei Soliti Idioti, di cui imita anche l'infantilismo tontarello, talvolta calato così tanto nel ruolo da incrinare la resa vocale, benché si tratti di inezie a fronte di una parte ben sostenuta. Piace e convince anche la Leonarda di Caterina Dellaere, voce ben impostata e corretta e gestione sicura dello spazio scenico, a suo agio nel ruolo dell'assistente scalatrice sociale che non si picca di circuire il marchesino, salvo poi rifiutarlo per abbracciare il cameriere Simone, qui Lorenzo Liberali, comprimario ancora acerbo, ma diamo tempo al tempo.

Completano il cast i figuranti: Silvia Lorenzi (moglie di Don Giulio Antiquati, serve per mettere in scena il tradimento e l'abbandono del marchese e la sua conversione alla nuova ideologia), Mattia Agatiello (aitante amante della moglie del marchese, poi suo marito nel corso dell'opera), Andrea Sironi (Bastiano), Alessandro Sironi (Enrico bambino) e Vittorio Giuseppe Degiacomi (Bernardino).

Prolungati e convinti gli applausi a fine recita, anche da parte di una nutrita delegazione di finanzieri in alta uniforme.

Christian Speranza

4/12/2022

 

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.