RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

CON DONIZETTI DA FERRARA A SIVIGLIA

LUCREZIA BORGIA A BRUXELLES e LA FAVORITE A PARIGI

 

Un tempo opere di repertorio, Lucrezia Borgia e La Favorite (ancorché questa nella insoddisfacente e non troppo fedele versione italiana, cioè La Favorita) hanno talmente diradato la loro presenza nei cartelloni italiani, che è più facile, per chi ne ha la possibilità, assistere alle loro occasionali riapparizioni all'estero. Donizetti infatti ritorna, anche dove meno lo si attende (come dimostra tra l'altro la riscoperta l'anno scorso di Le Duc d'Albe ad Anversa, in un teatro che aveva in pratica bandito per decenni le opere del Bergamasco) mentre i mastodontici bicentenari di Verdi e Wagner in corso di celebrazione non disturbano sensibilmente la frequenza dei suoi titoli, tra consueti e sporadici.

Oggi non possiamo non annoverare tra i massimi esiti della drammaturgia donizettiana tanto Lucrezia Borgia quanto La Favorite, considerate nell'insieme e non già in virtù di determinate pagine maiuscole destinate a riscattare quelle che lo sarebbero meno.

La Borgia, tenuta a battesimo alla Scala di Milano il 26 dicembre 1833, è una riuscita fusione di tragico e comico (senza la quale non sarebbe concepibile, per esempio, il Rigoletto verdiano che la segue a diciotto anni di distanza) e si avvale di uno dei libretti più teatralmente validi di Felice Romani (anch'esso a suo tempo maltrattato da librettologi che avrebbero fatto meglio a cambiare mestiere per il bene dei loro lettori). La suddivisione in un prologo e due atti si giustifica con il rispetto, almeno formale, delle unità aristoteliche. Il prologo si svolge infatti a Venezia, mentre i due atti successivi trasferiscono l'azione a Ferrara pochi giorni dopo. Il dramma segue approssimativamente la fonte di Victor Hugo.

Osiamo dire che, all'inizio dei fatidici anni Trenta dell'800, la Borgia è opera d'avanguardia, che fa terribilmente ombra ai sublimi melodrammi belliniani coevi. Il “realismo” romantico, qui felicemente sperimentato, la rende inconfondibile nel pur fitto opus donizettiano (la si può, almeno in parte, accostare a Maria di Rohan di dieci anni posteriore). In una convincente simbiosi tra teatro e musica, comico e tragico formano le due facce della stessa medaglia, poiché il primo serve da cassa di risonanza del secondo: il tragico epilogo arriva sotto lo scintillante vestito della festa e la coppa del piacere si rivela il calice della morte. Suggestiva l'opinione espressa da Hans von Bülow alla fine dell'800: «È l'opera che preferisco a teatro dopo Carmen».

In Belgio la Borgia ha un sapore di autentica rarità. Rappresentata a Gand nel 1969, era stata ripresa, in forma di concerto, a Liegi nel 2009, ma a Bruxelles doveva essersene perduta la memoria. Il nuovo allestimento della Monnaie, ospitato però nella dépendance del Cirque Royal, era affidato al fiammingo Guy Joosten, le cui “stravaganze” registiche mi sono parse ben più azzeccate di quelle di una Lucia brussellese di alcune stagioni fa o di un Freischütz liegese ormai lontano. (Ho assistito alle rappresentazioni del 23 e 26 febbraio).

Sull'arena, occupata al centro da una vasta piattaforma che funge da palcoscenico con l'orchestra sistemata allo stesso livello a nord-est (ma il direttore volge le spalle ai cantanti), incombono, strategicamente disposte, mastodontiche sagome di resina: un'orchessa-baldracca, una Vergine trafitta e un teschio con corona regale. Domina il fondo l'ingresso del palazzo ducale di Ferrara - con la scritta luminosa 'Borgia' - che si apre a mo' di sottoveste e su cui svetta un ignudo busto femminile acefalo, dal quale si affaccerà Lucrezia alla fine per svelare la trappola mortale della sua vendetta in cui Gennaro e gli amici sono stati attirati. Una pedana retrattile e alcune sedie completano l'arredamento. La scenografia è di Johannes Leiacker, le luci, costantemente cupe e notturne, sono di Manfred Voss e i costumi, attuali o atemporali, recano la firma di Jorge Jara.

Nel prologo veneziano siamo in pieno Carnevale, celebrato in blasfemi travestimenti ecclesiastici e maschere zoomorfe dai compagni di Gennaro, nobili uomini d'arme intaccati dal mestiere delle battaglie, ma mai sazi di baldoria, risse, festini e orge. L'incontro tra Lucrezia in incognito e Gennaro, suo figlio illegittimo - lei lo sa, lui lo ignora - volge in catastrofe al sopraggiungere degli amici di Gennaro che riconoscono la Borgia. Ognuno di essi ha crimini da imputarle e l'avvolge e soffoca in una crudele “sarabanda”, resa efficacemente sulla scena. I due atti successivi, con tutti i personaggi di nuovo riuniti a Ferrara , vedono la vendetta di Lucrezia, che, in un funesto garbuglio con la feroce gelosia del Duca Alfonso suo consorte, provoca l'esito che ad ogni costo lei voleva scongiurare: la morte di Gennaro avvelenato, il quale un attimo prima di spirare scoprirà che è suo figlio.

Ammirevole la cura con cui Joosten, anche con sottili sfumature, definisce la psicologia dei personaggi, compresi quelli secondari, senza perdere di vista il disegno persuasivo dell'insieme. Tra le svariate Lucrezie del mio catalogo leporelliano non avevo ancora visto un altrettanto stupefacente Duca Alfonso, “mostro” di tale raffinata ed elegante doppiezza, irresistibile despota fin nel mielato sorriso di carnefice.

Il Carnevale veneziano prosegue, e perché no, a Ferrara, ma gli scherani del Duca, con maschera e bombetta e muniti quasi per gioco di manganelli e mazze da baseball, hanno tutto tranne l'aria amichevole e fraternizzante! Alla tragica orgia conclusiva non poteva mancare un'eletta schiera di finte monache seminude per intrattenere gradevolmente gli invitati di sesso maschile. Ma dopo la recente Traviata della Monnaie tutto questo è... paradiso!

La sempre ragguardevole Orchestra sinfonica della Monnaie era nelle mani di Julian Reynolds ed il direttore britannico ha reso piena giustizia alla partitura donizettiana, valorizzandone con dinamiche e tempi appropriati la ricca e variegata strumentazione. Martino Faggiani dirigeva il Coro della casa: due valori sicuri, che hanno infatti confermato il prestigio riconosciuto loro in pagine in cui Donizetti fa lezione al futuro Verdi anche in materia di cori.

Il soprano rumeno Elena Mosuc si trova a suo agio nell'ambiguo ruolo della protagonista - più vittima che creatura malefica e amorale - vocalmente nitida e potente, scenicamente efficace. Per come coniuga dramma e belcanto basterebbe la sua sola prestazione a rendere memorabile l'esecuzione. Il tenore statunitense Charles Castronovo, plausibile come figlio, traduce nell'incanto della voce la giovanile irruenza e la fragile freschezza del suo personaggio, ardente, leale e... ingenuo. Il compito dell'indispensabile villain tocca in questo caso al Duca, impersonato dal basso-baritono francese Paul Gay. Non è esattamente un belcantista, ma se la cava con sufficiente credibilità e vigore sul piano vocale (la sua parte pur limitata non è certo di riposante impegno), in compenso può sfoggiare magnifiche risorse di attore. Lo spavaldo e intrepido Maffio Orsini, amico fraterno, inseparabile di Gennaro, era il mezzosoprano spagnolo Silvia Tro Santafé, di gradevole presenza scenica in abiti maschili. Grazie a uno strumento ricco, caldo, solido ed espressivo, ha conferito pregevole smalto e cattivante virtuosità alla sua prestazione, non soltanto nel celebre brindisi .

Alle parti secondarie, ma non troppo in quest'opera, ha corrisposto il valido contributo dei rimanenti interpreti: Roberto Covatta (Liverotto), Tijl Faveyts (Gazella), Jean-Luc Ballestra (Petrucci), Jean Teitgen (Gubetta), Alexander Kravets (Rustighello), Justin Hopkins (Astolfo/Voce interna), Stefan Cifolelli (Vitellozzo), Alain-Pierre Wingelinckx (Usciere) e Gerard Lavalle (Coppiere).

La Favorite andò in scena all'Académie Royale de Musique (Opéra) di Parigi il 2 dicembre 1840, imponendosi presto tra in non pochi lavori creati da Donizetti, all'apogeo della sua carriera, per i teatri di Parigi. Amalgama magistrale di due precedenti lavori cui era mancato l'approdo sulla scena (l'enigmatica e frammentaria Adelaide italiana e L'Ange de Nisida francese), i quattro atti della Favorite , su libretto di Alphonse Royer, Gustave Vaëz e Eugène Scribe, dimostrano in termini eloquenti la capacità di Donizetti di misurarsi in maniera convincente, raffinata e idiomatica col grand-opéra , genere questo tipicamente francese, se non fosse che gran parte dei contributi più significativi li hanno dati compositori stranieri (Spontini, Rossini, Meyerbeer, Verdi e appunto Donizetti).

Purtroppo il grand-opéra è oggi un mal aimé in Francia, mentre gode, paradossalmente, una relativa fortuna oltre i confini dell'Esagono. Ma, a volerne far rivivere i fasti, l'elegante sala del Théâtre des Champs-Elysées parigino in stile eclettico primonovecentesco, che ha giusto un secolo di esistenza e dove sono stato spettatore della rappresentazione del 19 febbraio, non risulterebbe forse la cornice più appropriata.

Non disturbano quindi la visione spoglia e minimalista, con pochi arredi di scena, della scenografia di Andrea Blum e i sobri costumi ottocenteschi di Aurore Popineau. Niente riferimenti, a parte quelli del testo, all'Andalusia del XIV secolo, in cui interagiscono, liberamente tratti dalla storia, il re di Castiglia Alfonso XI e la sua celebre amante Leonora de Guzman (antenati dell'imperatore Carlo V). Suggestiva l'immagine delle grate proiettate sul velario trasparente, che allude al Monastero in cui la vicenda ha inizio ed epilogo, ma anche alla Corte di Siviglia, dove nessuno, re compreso, può sottrarsi a tutta una serie di vincoli, mentre una fila di piccole luci sul proscenio basta a ricreare il tempio dove la morte di Léonor suggella l' unhappy ending.

Funzionale, senza colpi di genio né stramberie, la regia di Valérie Nègre, che, con la collaborazione di Sophie Tellier, ha ben coordinato i movimenti di solisti e masse. Imprime in particolare aggraziate movenze “coreografiche” alle damigelle, che accolgono l'ex-novizio, futuro guerriero Fernand all'appuntamento con l'ancora sconosciuta Léonor, di cui è innamorato, nel secondo quadro del 1° atto, e sposta strategicamente via via nel Finale 3° i cortigiani e le dame: avanzano, indietreggiano, fanno gesti e si scambiano sguardi ironici, circondano e scherniscono Léonor, puntano il dito contro la maîtresse du Roi, con plastica evidenza del fluire dell'azione.

Del grand-opéra il balletto è un ingrediente irrinunciabile, ma nel XXI secolo non è un sacrilegio farne a meno nella Favorite , come in tale occasione, anzi! Ciò detto, questa contingente “convenienza” teatrale nulla toglie al fatto che il balletto del 2° atto della Favorite può, assieme a quello di Dom Sébastien, roi de Portugal , gareggiare a fronte alta con i balletti ben più noti di Verdi e Meyerbeer.

Alla guida dell'Orchestre National de France, compagine di tutto rispetto, Paolo Arrivabeni ha diretto con eleganza, gusto e ammirevole visione d'insieme, esaltando nei vari momenti, a partire dalla magnifica ouverture (da Smetana poi citata nella Moldava ), la drammaticità sacra e profana e il malioso belcanto della sontuosa partitura donizettiana.

Il mezzosoprano britannico Alice Coote ha incarnato la protagonista e la sua vivida e vibrante Léonor si è fatta valere, non soltanto nei brani in cui la si attendeva al varco, sfoggiando un bel grave espressivo. Il tenore belga Marc Laho ha il vigore, la flessibilità e lo stile necessari a rendere credibile il monaco-guerriero-amante Fernand e ne ha dato più che sufficiente prova. Quanto all'Alphonse del baritono Ludovic Tézier, che giocava in casa (benché sia marsigliese), ha trovato nel suo timbro caldo e vellutato il grand seigneur generoso, sensuale, geloso, ma anche ironico e calcolatore, che Donizetti ha concepito per questo ruolo (e poi si vorrebbe far credere che il baritono romantico lo abbia inventato Verdi). Per quanto adorna di bellezze sia La Favorite , aspetto sempre con ansia la seduzione indicibile di quel regale e struggente 'Pour tant d'amour ne soyez pas ingrate' del 3° atto e neanche stavolta l'aspettativa è andata delusa. Ha completato degnamente il quartetto il basso Carlo Colombara (Balthazar), ora ieratico e autoritario ora paterno e mistico, suadente e inflessibile come la morbidezza del suo grave quale superiore del Monastero. Il tenore Loïc Félix (Don Gaspar) ed il soprano Judith Gauthier (Inès) infine hanno reso onorevolmente i rispettivi ruoli di comprimari. Ma non possiamo dimenticare l'indispensabile contributo del coro che occupa ampio e vario spazio dall'inizio al calar del sipario e qui ce n'erano due: il valoroso Coro di Radio France e il degno emulo del Théâtre des Champs-Elysées diretti da Lucie Deroïan.

Fulvio Stefano Lo Presti

16/4/2013

Le foto del servizio sono di Clärchen et Matthias Baus.