RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Le metamorfosi di Andrea Camilleri

Il casellante

L'antifascismo di Andrea Camilleri pervade come un basso ostinato tutte la sua narrativa: si tratti delle avventure di Montalbano, di racconti contemporanei o delle opere imperniate sulla preistoria di Vigata, o di romanzi brevi imperniati su più o meno antichi fatti di cronaca o su una Sicilia arcaica dove è forte l'impatto della grecità classica, la polemica acre e corrosiva contro le storture e l'idiozia di fondo di qualsivoglia dittatura, di destra o di sinistra, è sempre ben presente, rendendo di fatto la storia narrata paradigmatico monito della realtà attuale. Né fa eccezione Il casellante, un breve romanzo del 2008, imperniato, come per altri versi Maruzza Musumeci, su un femminino ancestrale dove il mito greco s'innesta con estrema naturalezza: se Maruzza era la sirena depositaria di un'antica saggezza, votata a perpetuare la propria diversità nella figlia femmina, qui Minica, moglie del casellante Nino, è una donna che nella maternità, come Niobe, vede la sua unica ragione di vita. Devastata dalla bestiale violenza maschile, condannata alla sterilità, Minica si rifugia in una follia vegetale, dolorosa Dafne che nel tentativo di metter radici e fruttificare trova un suo temporaneo ma perverso equilibrio, finché la guerra, in un'eterogenesi manzoniana dei fini, non le donerà un bimbo, salvatosi miracolosamente da una bomba sganciata su un treno, bimbo che permetterà il ristabilirsi del cosmos matriarcale e della mente di Minica.

Attorno a Minica e a Nino ruota un mondo paesano che con la guerra e col fascismo deve comunque fare i conti: è il fascismo, nella figura del caporione locale, che innesta la sequenza di arresti immotivati che lascerà Minica sola nella sua casetta, preda della violenza, e saranno le conseguenze del fascismo e della guerra che le restituiranno la maternità. Su questa desolata realtà è la mafia, paradossalmente, a restituire un barlume di giustizia, procurando un avvocato a Nino, svelandogli quel che è realmente successo alla moglie, armando la mano di lui per una vendetta sanguinosa dove, per dirla con Montalbano, la stessa dinamica dell'uccisione del colpevole parlerà e spiegherà, punendo quel che la legge, come spiega Don Simone Tallarita, il mafioso, all'esterrefatto Nino (e oggi come ieri bisognerebbe aggiungere), tra attenuanti e cavilli giuridici, non riuscirà mai a punire adeguatamente.

Una denuncia sociale e storica, certamente mediata e ispirata delle lucide analisi di Leonardo Sciascia, che Giuseppe Dipasquale, regista della riduzione teatrale de Il casellante andata in scena dall'8 all'11 marzo al Teatro Abc di Catania, per la stagione 2017-2018 del Teatro Brancati di Catania, ha trasposto in una forma a metà tra il cunto e il musical, conferendo, grazie alla musica e alle canzoni di Mario Incudine e Antonio Vasta, una profondità di piani negata alla semplice versione teatrale. Il taglio espressionista dato al lavoro, con una scarna attrezzeria, esclusivamente simbolica, e l'aver affidato a Moni Ovadia sia il ruolo del narratore, sia una serie di personaggi, tra i quali anche quello della Mammana, ha fatto sì che il pubblico avesse sempre ben presente, da un lato, che di paradigmatica finzione teatrale si trattava, e dall'altro ha permesso che le personali riflessioni di Camilleri non si annacquassero nei dialoghi, ma sbalzassero vive, e pregnanti, dalle parole del Narratore, in tutta la loro carica sociale.

Le camaleontiche capacità recitative di Ovadia e la sua estrema padronanza dei passaggi di registro hanno senz'altro contribuito alla riuscita dello spettacolo, scatenando ora una comicità irresistibile, ora un partecipe sgomento dinanzi alla barbarie perpetrata sulla povera Minica, così come le musiche di Mario Incudine, cui era stato affidato il personaggio di Nino, che il bravo cantante è riuscito a rendere con un distacco quasi ieratico nei momenti più tragici, riservando invece ai passaggi comici una verve naturalistica di tutto rispetto. Ottima la prestazione di tutta la compagnia, da Gianpaolo Romania, anch'egli impegnato in vari ruoli, ad Antonio Vasta, la cui canzone La Crapa avi li corna, insieme al duetto con Incudine, ha strappato calorosi applausi a scena aperta da parte del pubblico, per finire con Sergio Seminara, perfetto nel ruolo falsamente bonario, didattico e allusivo del capomafia locale. Valeria Contadino, nel ruolo di Minica, si è purtroppo attestata su una recitazione eccessivamente naturalistica e poco incisiva: abbastanza monocorde nell'uso della voce, ha interpretato il dolore della maternità delusa senza ricerca delle sfumature, senza una mimica adeguata, ma soprattutto con una gestualità straripante che dimenticava il fondo mitico e arcaico del personaggio dipinto da Camilleri, del quale era appunto parte integrante l'emergere di una fissità da Niobe (sasso piangente), ponte di passaggio verso la dolorosa rassegnazione di Dafne non alloro, ma contorto olivo saraceno.

Giuliana Cutore

12/3/2018