RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«Il “sì” all'esistenza»

Il 18 maggio 1911 moriva a Vienna Gustav Mahler. A distanza di centododici anni, La Scala celebra questa data con la sua composizione più gioiosa, più affermativa, più potente: l'Ottava Sinfonia . E lo fa avvalendosi di risorse vocali e strumentali di specchiata fama: l'Orchestra e il Coro scaligeri, quest'ultimo istruito da Alberto Malazzi, il Coro della Fenice di Venezia, maestro Alfonso Caiani, il Coro di Voci Bianche dell'Accademia Teatro alla Scala, diretto da Bruno Casoni, più gli otto solisti di cui si dirà più avanti: tutti sotto la bacchetta di Riccardo Chailly, che di questa partitura è profondo conoscitore, essendo (curiosamente) alla sua ottava esecuzione e dirigendola ormai dal 1986. «Tutte occasioni speciali», tiene a precisare a Raffaele Mellace in una recente intervista. E occasione speciale, questa esecuzione, lo è anche per il Piermarini, “soltanto” alla sua terza Ottava, dopo la prima, nel 1962 con Hermann Scherchen, e la seconda, nel 1970 con Seiji Ozawa, alle cui prove assistette, tra gli altri, proprio il diciassettenne Chailly, che, soggiogato dalle emozioni, dovette andare a procurarsi, appena uscito dalla Scala, la partitura.

Simile soggiogazione spirituale, da parte di una vena creativa fulminea quanto inaspettata, investì Mahler nell'estate del 1906 a Maiernigg, dove l'Ottava venne concepita e stesa in soli due mesi (e pensare che all'inizio del consueto ritiro estivo il progetto iniziale sarebbe stato quello di riposarsi, ultimare la strumentazione della Settima e lamentarsi per la mancanza di ispirazione!). L'orchestrazione lo occupò l'estate successiva e fu portata a termine a Schluderbach, ai piedi delle tre Cime di Lavaredo, nel 1907, protraendosi poi, come di consueto per Mahler, fino a ridosso delle prove (il pianoforte e l'armonium vennero aggiunti proprio in fase di prove). Dal 1906 al 12 settembre 1910, tuttavia, quando cioè avvenne la première all'Ausstellungshalle (Palazzo delle Esposizioni) di Monaco di Baviera, passano quattro anni, gli ultimi che Mahler trascorre su questa terra. Dapprima l' annus horribilis, il 1907: il 12 luglio muore la figlia maggiore di scarlattina e difterite; di lì a poco il cuore rivela un difetto alle valvole che, infettandosi, lo porterà alla morte; infine, il 5 ottobre viene licenziato, dopo dieci anni, dall'Hofoper di Vienna: il 15 ottobre dirige il Fidelio per l'ultima volta, infine si accomiata da Vienna il 24 novembre con la sua Seconda Sinfonia, la Resurrezione, quella che, fino a quel momento, gli aveva accordato il più ampio consenso come compositore. Venne poi il 1908 e gli impegni col Metropolitan di New York, ma anche Das Lied von der Erde, nell'estate, e l'inizio della Nona, completata nel 1910: due lavori che segnano l'addio al mondo, il voltare pagina, prima di quella Decima trascendente, che non farà in tempo a completare. L'«immensa dispensatrice di gioia», come Mahler definisce l'Ottava, nasce quindi in condizioni liete, ma viene battezzata dopo un tunnel di disgrazie, cui si aggiunge anche il tradimento della moglie Alma – il suo amante, l'architetto Walter Gropius, è presente alla prima esecuzione, nascosto fra le tremila (!) persone che assiepano. l'Ausstellungshalle, assieme a personalità del calibro di Thomas Mann, Stefan Zweig, Willelm Mengelberg, Arnold Schönberg, Anton Webern e altri ancora –, alla quale, comunque, egli dedica la sua partitura più singolare e ambiziosa. Singolare, perché non s'era mai vista una sinfonia in due soli movimenti (al netto degli schemi preparatori che l'avrebbero vista organizzata in quattro), il primo di venticinque minuti, il secondo del doppio, cantati dall'inizio alla fine, non solo nel finale come nelle altre sinfonie di Mahler e dei suoi predecessori (Beethoven naturalmente in testa), per giunta basati su due testi inconciliabili, il Veni, creator spiritus nel primo, l'inno pentecostale di Rabano Mauro, arcivescovo di Magonza, e la scena finale del Faust II di Goethe nel secondo, musicata pressoché per intero (i tagli al testo goethiano, come pure quelli all'inno, sono minimi): latino e tedesco, sacro e profano (anche se un profano che tende al sacro), qualcosa tra un mottetto, un oratorio, una cantata, un ciclo liederistico senza soluzione di continuità, un atto d'opera: indefinibile. Ambiziosa per l'organico impiegato: nelle parole di Alfredo Casella, un altro illustre testimone della prima, «A sinistra e destra i 500 coristi della Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna e del Riedel-Verein di Lipsia, al centro i 350 bambini della Zentral-Singschule di Monaco […], davanti i sette solisti. Più in alto l'organo e sulla sua stessa tribuna 4 trombe e 3 tromboni» (da I segreti della giara, Il Saggiatore, Milano 2016). Se a questi aggiungiamo i 170 orchestrali, non sarà difficile capire perché Emil Gutmann, l'impresario che organizzò l'evento, la chiamò “Sinfonia dei mille”

Proprio mille non sono, alla Scala: sono poco più che un terzo, circa 360-370: sufficienti, tuttavia, a impressionare il più indifferente degli spettatori, almeno per il colpo d'occhio che si ha di fronte a una muraglia umana (volutamente o no, disposta in otto file, più due di bambini) che satura il palco come più non si potrebbe e testa così la nuova camera acustica del teatro, costituita da pannelli multilamellari in legno di okumé, albero dell'Africa occidentale altamente fonoriflettente, realizzata dalla ditta Suono Vivo col sostegno di Allianz, operazione che contemplerà anche la sostituzione delle poltrone di platea.

Quanto segue è un pensiero formatosi nell'arco di tre ascolti, di cui due con la partitura sotto gli occhi. Chailly, come si diceva alla sua ottava… Ottava, va capito, nella sua interpretazione. Primo movimento. Se guardiamo all'agogica indicata da Mahler, Allegro impetuoso, di impetuoso c'è poco in questa lettura. Il tempo, anche nei passaggi più travolgenti, è sempre costantemente trattenuto; non si tratta solo di velocità, tuttavia – quello è il parametro più variabile –, ma di sensazione trasmessa. Chailly offre una lettura avulsa da esacerbazioni rapinose (chi scrive rammenta un Noseda esagitato su un podio torinese nel 2011 con un'orchestra ai cento all'ora), e quell'apertura, sulle parole «Veni, veni, creator spiritus» è più solenne che impetuosa. Le sue Ottave portano il marchio di questa solennità: l'incisione al Concertgebouw del 2001, per esempio, reperibile su YouTube, è ancora più lenta, ancora più trattenuta: si respira l'aria maestosa di certe ouverture di Händel o dell'inizio dei Meistersinger wagneriani. Ciò permette una più agevole transizione al secondo tema, in re bemolle maggiore, poco più avanti, sulle parole «imple superna gratia», più dolce, più cantabile. A un primo ascolto può deludere, forse, può irritare: al nº38, per esempio, quando una pausa stacca nettamente l'inizio della grandiosa doppia fuga al centro dello sviluppo di quella che, un po' con le molle, può essere definita forma-sonata, Mahler prescrive di eseguire Mit plötzlichen Aufschwung (Con improvviso impeto): e questo improvviso impeto non c'è, non si coglie, la condotta rimane pressoché uguale, si avrebbe quasi voglia di scendere dal palco e andare a togliere il freno a mano all'entusiasmo, lasciare a briglie sciolte le ondate di suono . Poi però si capiscono tante cose, se appena si pazienza un poco: con la partitura davanti, si coglie uno scandaglio tecnico e analitico mostruoso: da direttore capacissimo, da compositore che compone da direttore (ci sarebbe da dilungarsi sui grattacapi che gli diede la disposizione di masse sonore così imponenti: il doppio coro era stato pensato per effetti stereofonici, secondo la mottettistica rinascimentale, ecc.), Mahler dissemina le pagine all'inverosimile di indicazioni espressive, di accenti, di strumenti a volte anche singoli o sezioni di coro isolate, che col loro inciso melodico devono emergere su una compagine sterminata – il termine hervortretend, cioè “marcato, enfatizzato”, ricorre decine e decine di volte. E, se non proprio tutte, nei limiti del possibile, queste indicazioni vengono fatte proprie da Chailly e messe in pratica, contrassegnando la sua lettura di una notevole plasticità e di chiaroscuri, pure in quella accecante luce che predomina. Il punto è saper ascoltare. Qualche perplessità ha suscitato la collocazione degli ottoni aggiuntivi nei due finali (le quattro trombe e i tre tromboni ricordati da Casella) sistemati ai lati dell'orchestra e fatti entrare poco prima del loro intervento dalle quinte laterali: Mahler li richiede Isoliert postiert, cioè isolati dal resto dell'orchestra, per meglio imporsi, sempre per effetti stereofonici, come già aveva fatto isolando le campane nella Sesta o i “corni del giudizio” nella Seconda: farli suonare da sopra il palco reale non sarebbe stata una cattiva idea, ad esempio – si veda Rattle nel 2002 alla Royal Albert Hall di Londra –, in linea con la visionarietà di Mahler, che avrebbe voluto le voci bianche in alto, a discendere sulla platea come cori angelici.

Simili le considerazioni sul secondo movimento, più ampio, più articolato, e che permette ancor meglio di cogliere quella plasticità di lettura di cui si diceva. Mentre nel primo movimento l'organo e il coro sono quasi onnipresenti, nel secondo la struttura si frastaglia, diventando simile, come si diceva, a una serie di Lieder, cosa che permette di apprezzare meglio i solisti. L'orchestra si assottiglia, fino a far emergere i delicati assoli di violino, viola e violoncello (Francesco Manara, Simonide Braconi e Sandro Laffranchini rispettivamente) o la tenue sonorità dei due mandolini, retaggio della strumentazione della Settima. Anche qui alcuni particolari interpretativi hanno suscitato domande: perché dare improvvisa enfasi al coro su «Satans Meister» in assenza di indicazioni da parte di Mahler (il quale, per i motivi detti, abbondava di indicazioni), o perché introdurre una piccola pausa prima del suddetto solo di violoncello (nº98)?

Accanto a un'orchestra di prim'ordine, straordinariamente coordinata nonostante le dimensioni, e che solo raramente perde di smalto – legni e trombe nel registro acuto inacidiscono il timbro, in alcuni perigliosi passaggi del primo movimento, qualche fiato qua e là coperto dagli archi, ma è comprensibile –, in grado di farsi massiccia e rutilante, come pure quasi immateriale, delicata, sonorità quest'ultima mutuata dall'Adagietto della Quinta – se non fosse per l'armonium e qualche legno, al nº106 la morbida linea dei violini primi sostenuti dall'arpa sembrerebbe proprio tratta di peso dall'Adagietto –, troviamo un cast ben assortito di solisti, nonostante le improvvise indisposizioni di tre di loro. Si parte con il Pater Ecstaticus di Michael Volle, che prende il posto di Andrè Schuen, baritono dal grande volume vocale che sovrasta agilmente l'orchestra e disimpegna la sua non facile parte (gli viene richiesto il Sol acuto!) con abilità. Meno robusto il Pater Profundus di Ain Anger, basso, che convince nel Veni, creator, ma che viene coperto durante la seconda parte (anche per lui le difficoltà non mancano: gli viene chiesto il Fa diesis acuto, che comunque raggiunge bene). Più problematica, anche perché più ardua la sua parte, la prestazione di Klaus Florian Vogt, il Doctor Marianus, tenore: a lui, Mahler chiede il compito di guidare l'ascoltatore verso l'alto, dapprima con la supplica alla Mater Gloriosa, sorta di San Bernardo dantesco post litteram («Hier ist die Aussicht frei»), di poi con l'invito a volgersi al «Retterblick», allo sguardo salvatore («Blicket auf»): nel primo intervento si riscontrano una buona padronanza del registro centrale ma notevoli difficoltà a raggiungere quello acuto: per arrampicarsi al Re, deve sfumare di molto il volume, come pure al Si del nº95, che costituisce l'approdo di un salto disagevole; tipica invece la prassi di abbreviare la durata del Fa e del Sol diesis al nº89 per mancanza di fiato (a sua discolpa è da dire che Mahler non è stato per nulla clemente con le sue note). Di grande valenza la Magna Peccatrix (e Soprano I) di Ricarda Merbeth (subentrata a Marina Rebeka), dotata di grandi risorse vocali (non a caso è una rinomata interprete straussiana e wagneriana), impiegate nei notevoli acuti del Veni, creator, come pure in grado di farsi flautata quando serve, e che entra poco dopo in terzetto con la Mulier Samaritana (e Contralto I) di Wiebke Lehmkuhl e con la Maria Aegyptica (e Contralto II) di Okka Von Der Damerau, entrambe in grado di soddisfare egregiamente le richieste mahleriane, soprattutto nel primo movimento. Chiudono la carrellata la pregevole Una Poenitentium (e Soprano II) di Polina Pastirchak (che sostituisce Krassimira Stoyanova) la Mater Gloriosa di Regula Mühlemann, che dal fondo del palco, in mezzo alle due ali del coro, riesce a far udire distintamente la sua voce esibendo nelle sue poche battute, dolcezza di timbro e fiato da vendere.

Il coro, per l'appunto, o meglio, i cori, il vero asse portante dell'Ottava: chiamati a detonare all'inizio, a sussurrare poco prima della conclusione, all'avvio del Chorus Mysticus, e a trionfare alla fine, sulla scorta di quanto accadeva nel Finale della Seconda , con cui condivide la tonalità di mi bemolle maggiore, chiamati altresì a dividersi, a ricongiungersi, a frammentarsi, meritano davvero un plauso speciale, gli adulti come i bambini, sorretti dai loro rispettivi maestri seduti a destra e a sinistra durante l'esecuzione: a loro viene rivolto, da una Scala che ha fatto registrare il tutto esaurito per tutte e tre le serate, l'applauso più grande e più convinto al termine di ogni esecuzione, e di quella del 20 maggio 2023 di cui si riferisce in particolare, che, iniziata con un minuto di silenzio chiesto dal Sovrintendente Dominique Meyer per le vittime del maltempo in Emilia Romagna, è terminata nell'apoteosi in quello che Bruno Walter ha definito «il “sì” all'esistenza» da parte di Mahler.

Christian Speranza

25/5/2023

Le foto del servizio sono di Brescia&Amisano.