|
Caterina una e trina
Santa Cecilia, aiutaci tu! Che se nemmeno la patrona della musica può più salvarci, è davvero la fine. Ma ormai il danno è fatto, e non resta che darne conto in queste righe. La data è quella di sabato 22 novembre 2025, Santa Cecilia, appunto; il luogo è il Teatro Donizetti di Bergamo e l'opera è la Caterina Cornaro alla seconda recita su tre del Donizetti Opera Festival 2025.
Caterina Cornaro … o quel che ne resta… dopo l'adattamento teatrale (“regia” per chi ci crede) di Francesco Micheli, complice il Dramaturg Alberto Mattioli. Sia chiaro: la produzione nel complesso si salva: ma soltanto per merito del lato interpretativo, grazie a un'orchestra, un direttore e un cast che sanno il fatto loro, nonché per un intrinseco valore musicale, di cui si dirà. Per il resto, varrebbe la pena di applicarle la damnatio memoriæ che toccò a un altro personaggio di veneziana e donizettiana ascendenza: Marin Faliero.
Il progetto registico, in coproduzione col Teatro Real di Madrid, è contorto già nella sua ideazione. Si sovrappongono tre Caterine: c'è quella storica, raccontata dai sontuosi costumi di Alessio Rosati, che per l'occasione ricorre a mantelli e palandrane ispirati a modelli rinascimentali, riccamente elaborati, compresi quelli di sicari e coristi, tutti connotati da colori che in qualche modo richiamano il loro status morale, la nobiltà del blu per gli sfarzi del Prologo veneziano, il rosso e l'oro per la regalità di Lusignano e Caterina, gli intrighi e la malvagità nella cupezza dei bruni per Mocenigo e affiliati (Gerardo in bianco forse perché andato in bianco con Caterina...). E fin qui ha un senso.
C'è poi una Caterina contemporanea, in rosso, incinta (ed effettivamente la Caterina storica divenne madre, anche se per poco, ed era incinta al momento della morte di Lusignano), novella orfana di padre, afflitta per il destino del marito ricoverato, affetto da lunga malattia. Il marito, attossicato da Mocenigo, è naturalmente Lusignano, che si alza e si corica su una lettiga in una corsia d'ospedale, camicione blu d'ordinanza dei degenti – concorrono qui i camici bianchi, i referti, le radiografie, i veloci consulti in corsia, i «non ho tempo» mimati dei medici ai quali Caterina chiede invano informazioni. Per inciso, le scene di Matteo Paoletti Franzato risultano funzionali nello sfruttare una struttura rotante e scomponibile, volta a volta corridoio di una clinica – freddo, spoglio e un po' in penombra –, corsia di reparto, luoghi storici di Venezia e di Cipro scorciati in strutture architettoniche classicheggianti... Basta questa struttura a soddisfare pressoché tutte le esigenze sceniche, esempio ben riuscito di economia di mezzi e pragmatismo. Certo, Lusignano-paziente che viene rivestito del manto suo regal da un infermiere e diventa Lusignano-re fa un po' ridere – pardon, deconcentra dall'esperienza immedesimata di ascolto –, così come i sicari in mascherina nera, retaggio di pandemica memoria…
C'è infine la terza Caterina: quella che, assuefatta alla solitudine e alle lunghe attese, si allontana dalla realtà e sogna una vita parallela, un matrimonio felice, una luna di miele a Venezia, con tappa a Ca' Corner, dove una regina, secoli fa, si chiamava guarda caso come lei – le proiezioni di immagini sulla struttura rotante, a cura di Matteo Castiglioni, queste sì di suggestiva pregnanza estetica, valorizzate dal lighting design di Alessandro Andreoli, contribuiscono non poco a questa atmosfera di sogno: una su tutte, la palla di neve souvenir veneziano, con la sua eterea levità di chimera, il kitsch della gondola sublimato dalla Rosebud di Quarto potere che è lì che ammicca, come la sua ripresa fumettistica di Don Rosa. E come sognare al meglio questa fuga romantica, se non con un bell'uomo a fianco? Per esempio con Gerardo, il medico attento e presente che, camice bianco, mani disinfettate e bisturi sguainato in mano – sì, esatto, brandito a mo' di spada –, si precipita in sala operatoria a intervenire su Lusignano, cantando Su, corriamo concordi e possenti e Morte, morte! Fur troppi gl'insulti attorniato non più da ciprioti, ma da assistenti, paramedici e infermieri. Le proiezioni si spendono in classiche scene da film: lampada scialitica un po' sfocata, inquadratura dal basso coi visi dei chirurghi coperti da mascherine, la soggettiva del paziente clinostatico. Ma l'intervento ha esito infausto. A Lusignano, di rientro dalla sala operatoria, non resta che cantare dalla barella il suo commiato, Ah, sposa mia, tu piangi. Sfuma la fuga romantica col bel dottore, rimane la gravidanza di una vedova.
 Tutto molto tragico, tutto molto bello, tutto molto originale, con la mano esperta di chi padroneggia lo spazio scenico nel disporre volumi, cori e movimenti (anche se restano incomprensibili quelli dei coristi che devono mantenere un braccio ad angolo retto). Tutto sicuramente d'impatto. Ma a che pro? Il dibattito potrebbe essere interessante: citando il Mattioli del programma di sala, «Ci sono tre Caterine»: quella storica, di Tiziano e di Bembo; quella di Donizetti, anzi di Gaetano Donizetti e Giacomo Sacchero, librettista di cui ricorre proprio quest'anno il centocinquantenario della morte (1875-2025), necessariamente diversa e romanticizzata – la Caterina che iniziò ad avere vita letteraria da Pierre Daru, e di cui il compositore lesse in qualche fonte derivata a casa del cognato Toto Vasselli, testimonianza del marzo 1843 –; e la Caterina contemporanea: o meglio, ciò che il “personaggio” Caterina trasmette a noi contemporanei. Che poi la percezione che se ne ha derivi da una mescolanza o da una sovrapposizione delle tre, può anche darsi, ed è uno dei rischi della storia, o forse una delle sue implicazioni naturali. Tutto vero. Tutto interessante. Tutto argomento di dibattito. Resta il fatto che si è qui per assistere alla Caterina Cornaro di Donizetti e Sacchero: non alle altre. Né tanto meno a quella di Donizetti-Sacchero-Micheli-Mattioli. È il solito problema di regie che crescono come funghi su un substrato fertile. E di cui non si sente il bisogno.
Il côté musicale provvede ampiamente a compensare le devianze registiche. Si parta dal valore storico di questa produzione, che nella nuova edizione critica a cura di Eleonora Di Cintio propone il finale alternativo che Donizetti scrisse nel 1845 ma che non venne mai eseguito. Donizetti iniziò a scrivere la Cornaro nel 1842 per Vienna, trovando in Sacchero un valido sostituto di Cammarano, che venne meno quasi subito al contratto sottoscritto con Merelli. La stesura, che nell'ottobre del 1842 procedeva già verso il secondo atto, si interruppe per far posto al Don Pasquale per Parigi. Senonché, gli echi positivi della Catharina Cornaro di Franz Lachner, data a Monaco nel novembre del 1841, indussero il Kärntnertortheater ad allestirla anche a Vienna: siamo nel novembre del 1842. Donizetti non volle presentare lo stesso soggetto (peraltro, prima di loro, ci aveva pensato Halévy a Parigi con la sua Reine de Chypre nel 1841; ma dopo Donizetti la riprenderanno ancora Michael William Balfe nel 1844 e Giovanni Pacini nel 1845), e rimediò in fretta e furia con la Maria di Rohan. Il progetto Cornaro venne quindi girato a Napoli, dove per il San Carlo Donizetti avrebbe dovuto presentare un'opera dal Ruy Blas di Hugo. Alla prima del 18/01/1844, l'opera fece fiasco: primo, Donizetti non poté supervisionare la messinscena; malato a Parigi, inviò la partitura in due tranche per posta; secondo, le voci scelte non furono ottimali (Caterina fu addirittura un mezzosoprano anziché un soprano); terzo, il libretto venne alterato non poco dalle pressioni censorie: Francesco Ruffa, coadiuvato da Cammarano, cambiò alcuni particolari della trama e del testo, tali che l'opera non fu più la stessa. Donizetti riprese l'opera l'anno dopo per il Ducale di Parma (l'attuale Regio), inviando anche qui per posta le modifiche, varianti tali da far parlare di seconda versione: la più importante è certamente il nuovo finale, che evita il classico rondò della primadonna in luogo di un ultimo intervento di Lusignano morente, soluzione più moderna, più tragica, ma che per forza di cose metteva in ombra il fuoco d'artificio conclusivo, quasi obbligatorio, del soprano. Marianna Barbieri-Nini, la futura prima Lady Macbeth verdiana di lì a due anni, non ci stette, ed eseguì il finale napoletano: manie di protagonismo, o forse più prosaicamente mancanza di tempo per provare e montare la nuova pagina. Conseguenza: il finale ripensato da Donizetti venne chiuso in un cassetto e mai eseguito.
 Ci pensa il Donizetti Opera Festival 2025 a inscenare la «Prima rappresentazione secondo la volontà del compositore»: un tassello non da poco nella scoperta ancora in fieri del lascito donizettiano. A dirigere questa nuova Cornaro un esperto del settore, Riccardo Frizza, da quest'anno nuovo direttore artistico e musicale del Festival, che qui, alla testa dell'Orchestra Donizetti Opera, fornisce con mano sicura e con polso più che fermo una lettura da cui emerge la tracotante sanguignità della musica. Ma non solo. Fri zza si riconferma un direttore di classe per questo repertorio; concertati incalzanti, densi, coesi; un finale davvero esplosivo e trascinante, dalla corrusca timbrica orchestrale, per quanto senza guizzi di straripante personalità; duetti equilibrati per dinamiche e agogiche, arie e cantabili accarezzati e cullati nelle loro frasi da morbidi cortei sonori. Certo, sarebbe stato corretto porre gli intervalli tra un atto e l'altro, anziché metterne uno dopo Prologo e metà primo atto (dopo il duetto Gerardo-Lusignano della scena III, per l'esattezza), e ascoltare per intero il Preludio, anziché doversi accontentare di una sua versione mutila, troncata dal sopravvenire di una voce registrata che declama: «Mio marito è molto malato», la stessa frase che si può leggere, come altre che seguono durante la recita, proiettata sulla scena in un font che parrebbe lo stesso dei programmi di sala della Fenice (riferimento voluto, dato il soggetto e la recente querelle Venezi -ana?). Tra l'altro: il ricorso alle scritte pare quasi una didascalica excusatio non petita per una regia che si sa che sarebbe stata difficile (Micheli che vuol fare il Michieletto, con minor estro e minor perversione).
Ben scelto il cast, vera arma vincente della produzione. A dominare la scena è la Caterina di Carmela Remigio, che dà fondo alle sue doti tanto di attrice, nel passare dalla versione storica al suo doppelgänger contemporaneo, quanto di cantante, sfoggiando un canto pieno, melodioso, in notevole risalita rispetto a qualche prova un po' appannata di uno o due anni fa. Vi si ritrovano tutte le quadrelle della sua faretra: un'accentuazione peculiare di alcune sillabe, un canto acceso di passionalità, verace, carismatico, incisivo, che fa presa attorno alla parola e la veicola quasi matericamente. Il suo contraltare maschile è il Gerardo di Enea Scala. Lo caratterizza un timbro talvolta asprigno, che a volte dà l'impressione che la voce “punga” in acuto, cui accede in realtà senza sforzo; ma a fronte di ciò, il canto è spiegato e spavaldo, anche se il meglio arriva nei passaggi in piano e nel registro centrale, dove le sfumature si raffinano al meglio; volume e potenza sono dalla sua, così come estensione, espressività, cesello di parola e controllo delle fioriture, condotte con buona sinuosità. Strepitoso il Lusignano di Vito Priante. E non servirebbe dire altro, ché ogni lode sarebbe un pallido riflesso della sua arte. Dopo il Macbeth bussetano del mese scorso lo ritrovo in un ruolo a lui perfettamente congeniale – e chissà che il destino non ci abbia messo lo zampino, a fargli interpretare a distanza ravvicinata due ruoli che ebbero un elemento in comune: Felice Varesi, il primo Macbeth verdiano e il più convinto propugnatore della ripresa parmense della Cornaro. Varietà di accenti torniscono un canto che esce sempre aderente al vocabolo, rivestito di una nobiltà pari al personaggio. Timbrica baciata da Euterpe, vocalità calda, brunita e vellutata, Priante sbalza un chiaroscuro tragico, sublimato nell'arioso conclusivo, che non manca l'effetto di una chiusa travolgente. Statuario e di notevole spessore il Mocenigo di Riccardo Fassi, dallo strumento scuro, cavernoso, risonante, dalla cavata cupa e oltretombale.
Notevole è anche l'altra voce grave del cast, l'Andrea Cornaro di Fulvio Valenti, strumento completo, di buon volume, opportunamente focalizzato sul ruolo del pater dolorosus. Francesco Lucii risolve bene il doppio ruolo di Strozzi e di un Cavaliere del re, mentre sarebbe interessante riascoltare Vittoria Vimercati in ruoli più ampi della Matilde che qui interpreta con bella proiezione e affascinante luminosità vocale.
Si pone infine in ottima luce il Coro dell'Accademia Teatro alla Scala, preparato da Salvo Sgrò, che ha modo diverse volte, dato il peso degli interventi corali, di dimostrare il suo valore. Per tutti, vivi e calorosi applausi, mondati dai buatori che hanno malaccolto il team registico alla prima.
Christian Speranza
1/12/2025
Le foto del servizio sono di Photo Studio U.V.
|