RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

I dialoghi dei morti

Da sinistra: Francesco Russo e Valerio Santi.

La storia della scienza ha sempre dibattuto, più o meno sottotraccia, un quesito fondamentale, le cui implicazioni coinvolgono in maniera determinante i destini dell'umanità: tale quesito riguarda la neutralità dello scienziato, il problema cioè se all'uomo di scienza sia lecito o meno ignorare, per puro amore di conoscenza, le conseguenze, umane, storiche e politiche delle proprie scoperte, e continuare a indagare su linee teoriche che potrebbero condurre alla costruzione di armi devastanti, a manipolazioni genetiche in grado di sovvertire il tessuto sociale o le stesse condizioni di vita dell'umanità. I fautori della neutralità si sono sempre difesi, sia in ambito specialistico che divulgativo, sostenendo che ogni scoperta scientifica è, o può essere, gravida di conseguenze sia fauste che nefaste per l'uomo, e che il dilemma sta nell'uso che si compie di una nuova tecnologia e non nella tecnologia stessa: ad esempio, la manipolazione genetica potrebbe sia debellare il cancro e altre malattie oggi ancora incurabili, sia contribuire a produrre una casta di subumani e dunque di manodopera a costo zero a tutto vantaggio delle classi dominanti, quale quella descritta da Haldous Huxley ne Il mondo nuovo. Tale posizione, certamente più condivisibile di quella che pretenderebbe imporre dei limiti alla conoscenza umana, consigliando una sorta di censura preventiva che lo scienziato dovrebbe autoimporsi, se dà una soluzione accettabile al problema in linea teorica, poco si cura sia dell'uomo che sta dietro lo scienziato, sia delle interazioni tra gli uomini di scienza, sia dei rapporti tra questi ultimi e il potere.

In buona sostanza, ripercorrere la storia della scienza solo a parte conoscenza, poco o nulla consiglia su quelle che dovrebbero essere le reali responsabilità dello scienziato, rimandando di fatto alla politica, e dunque al potere, l'incombenza di risolvere il dilemma, magari in nome di un supposto spirito filantropico il cui progresso dovrebbe andare di pari passo con quello scientifico. Si tratta evidentemente di una pia illusione: la storia dell'umanità dimostra purtroppo che il progresso scientifico e quello mentale dell'umanità non vanno di pari passo, e che anzi ancor oggi l'obiettivo primario degli Stati non è quello di finanziare i progetti che potrebbero migliorare le condizioni di vita, ma al contrario di dare la precedenza a quelli in grado di fornire armi sempre più devastanti che, se utilizzate, renderebbero in breve la terra un inferno inabitabile.

Questo dilemma è invece da molto tempo campo di indagine degli scrittori, che hanno spesso indagato episodi oscuri della storia della scienza con la più o meno esplicita intenzione di additare la vera dimensione di questo irrisolvibile problema. Il mistero più indagato della fisica è stato certamente quello della scomparsa di Ettore Majorana, a tutt'oggi di fatto irrisolto; ma ne esiste un altro, forse ancor più controverso, riguardante il colloquio avvenuto a Copenaghen nel settembre 1941 tra Niels Bohr e Werner Heisenberg, due tra i fisici che, su campi avversi, ebbero comunque un ruolo determinante negli studi che portarono alla bomba atomica che venne sganciata su Hiroshima e su Nagasaki. Heisenberg collaborò col regime nazista per il programma nucleare militare tedesco, mentre Bohr si unì al progetto Manhattan: non si sa cosa si siano detti i due fisici a Copenaghen, ma fatto sta che dal settembre 1941 la loro amicizia terminò bruscamente, più o meno come nel 1938 l'esistenza civile di Majorana.

Su questo paradigmatico enigma il drammaturgo britannico Michael Frayn ha scritto un lavoro teatrale dal titolo appunto Copenaghen, che ha debuttato a Londra nel 1998 con un successo enorme, che gli ha fruttato nel 2000 il Tony Award al miglior spettacolo: l'originalità della pièce sta nell'essere costruita, oltre che sulla vicenda che coinvolse i due fisici, proprio sulle conseguenze pratiche e dunque umane del principio di indeterminazione di Heisenberg, principio che di fatto afferma che le leggi naturali non conducono a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo e che quindi, in ultima analisi, tutto ciò che accade, ivi comprese le interazioni tra gli esseri umani e le loro decisioni, è “piuttosto rimesso al gioco del caso”. A livello umano, ciò significa che anche che tutta la nostra esistenza sulla terra è in ultima analisi un gioco del caso, ma un caso sul quale, per lo stesso principio di indeterminazione, anche le decisioni del singolo possono avere un effetto dirompente.

Da sinistra: Francesco Russo, Irene Tetto e Valerio Santi.

Una impostazione del problema che dunque assegna una responsabilità morale enorme, non solo allo scienziato, ma a ogni uomo: per assurdo, anche assistere o meno alla rappresentazione di Copenaghen potrebbe fare la differenza. E forse è proprio per questo intimo convincimento che Valerio Santi ha lottato strenuamente per ottenere da Umberto Orsini, in tournée proprio con questo lavoro, la concessione a rappresentarlo al Teatro L'Istrione di Catania dal 9 all'11 febbraio.

Avevamo già avuto modo di conoscere professionalmente Valerio Santi nel 2014, quando recitò come protagonista maschile nella commedia di Dario Niccodemi L'alba, il giorno e la notte, in scena al Centro Zo di Catania per la regia di Filippo Brazzaventre, e ne avevamo già apprezzato le doti attoriali, preconizzando che la sua versatilità gli avrebbe certo permesso di spaziare sia nel repertorio comico che in quello drammatico. In Copenaghen, nella duplice veste di regista e di attore, nel ruolo di Heisenberg, ha mostrato di essere cresciuto professionalmente, e soprattutto di aver acquisito un controllo della gestualità davvero egregio: nella sua recitazione, ogni gesto è stato pensato e guidato alla costruzione di un personaggio tormentato, controverso, conscio della funebre ombra che la Storia ha gettato su di lui. Il copione prevedeva che i tre protagonisti, Heisenberg, Bohr e la moglie Margrethe, ormai morti, riavvolgessero continuamente il nastro del colloquio del settembre 1941, alla ricerca di una spiegazione e di certezze non solo sulle loro reali responsabilità, ma su quanto proprio il principio di indeterminazione avesse agito su di loro. E questa dimensione di morti senza requie Santi ha tenuto sempre presente, rendendola palpabile agli spettatori con lunghe pause, con una recitazione lenta e pacata, a tratti straniata, che consentisse di comprendere e non solo di ascoltare i dialoghi, talvolta abbastanza ostici nel loro riferimento alle leggi fisiche, e con una dizione perfetta, anche nella dimensione del sussurro, che ha permesso di non perdere una sola sillaba.

Come regista, ha guidato gli altri due attori sulla stessa linea di recitazione, facendo sì che il Niels Bohr di Francesco Russo facesse virare l'inquietudine e l'impulsività del personaggio in una sorta di stupore continuo, dove l'attore riusciva a rendere evidente non solo l'aspetto umano dello scienziato, il suo tardivo rimorso, ma anche quell'arroganza intellettuale che, forse, era stato l'elemento di casualità che non gli aveva permesso di comprendere il reale significato della visita di Heisenberg, impedendogli di fatto di andare oltre le parole pronunciate dal fisico ormai al servizio del nazismo.

Irene Tetto, nel ruolo di Margrethe, la moglie di Bohr, ha confermato la sua estrema versatilità di attrice, che le permette di spaziare dal repertorio assolutamente comico a quello tragico con stupefacente naturalezza: in Copenaghen è stata l'anima e il motore di quel continuo riavvolgimento del nastro cui accennavamo prima, usando la voce su un registro duplice che le ha permesso, con repentini passaggi del timbro, di dare l'impressione di una recita all'interno della recita, come anche nelle battute preregistrate delle riprese video di Alfio Nicotra, che, insieme al suggestivo light design di Ségolène Le Contellec, abbattevano di fatto la quarta parete, catapultando gli spettatori in questo universo di ombre dolenti.

Uno spettacolo di grande impatto emotivo, ma soprattutto realizzato con pochi mezzi, a dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che si può far cultura, come sbandierano di fare enti e istituzioni ben più blasonati, anche senza spendere un capitale e nonostante i tagli ai budget dei teatri, purché si abbiano delle idee valide, competenze reali e professionisti, tutte cose che non è necessario andare a cercare fuori a prezzi più o meno esorbitanti.

Giuliana Cutore

12/2/2018

Le foto del servizio sono di Dino Stornello.