RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Lo specchio di Narciso

Nel 1829 un giovane drammaturgo tedesco di nome Christian Grabbe, morto a soli trentacinque anni di alcolismo causa un'esistenza sregolata secondo il byronismo allora imperante, scrisse un corposo dramma, dal titolo Don Juan und Faust, nel quale immaginava che questi due personaggi, ormai già archetipi del libertino impenitente e dello scienziato che si autopriva della propria umanità in nome della conoscenza, s'incontrano e s'innamorano entrambi di Donna Anna. Il dramma, molto lungo e di non facile rappresentazione, anche se non privo di notevole genialità e di felici intuizioni sulle somiglianze occulte tra i due personaggi, non ebbe, com'era facile immaginarsi, grande successo, e solo nel secolo scorso è stato riscoperto e tradotto anche in Italia: tuttavia, è di fondamentale importanza per la storia della letteratura perché è il primo a mettere in esplicito parallelismo le due figure archetipali, storicamente prodotto della Riforma, Faust, e della Controriforma, Don Giovanni. Entrambi sono infatti caratterizzati da un narcisismo sfrenato, mentale quello di Faust, prettamente fisico ed erotico quello di Don Giovanni, le cui conseguenze sono da un lato, com'è chiaro, un ego smisurato, ma dall'altro l'irrefrenabile tendenza ad avventarsi contro i vincoli e le proibizioni della morale corrente: se ciò in Faust si traduce nella superbia intellettuale dello scienziato che nulla può spaventare e che nella superstizione vede solo un utile strumento di controllo sociale da parte della Chiesa, in Don Giovanni diviene un erotismo panico, una brama inesausta di possedere tutte le donne del mondo, per il solo gusto di essere oggetto di desiderio da parte di queste. Sempre per restare nell'ambito del parallelismo tra Faust e Don Giovanni, non è un caso che entrambe queste figure archetipali della ribellione umana contro la morale e la religione correnti siano state oggetto delle attenzioni sia dei letterati, che dei musicisti, che dei filosofi, i quali hanno contribuito a sfaccettare ulteriormente tali personaggi, arricchendoli di ciò che il lento progredire dei tempi, dal XVI secolo per Faust, dal XVII per don Giovanni, ha mutato nella ricezione delle loro caratteristiche, e di quel che la stessa esistenza degli scienziati secenteschi, per Faust, dei libertini francesi e del nostro Casanova, per Don Giovanni, ha reso storia vera quel che era un tempo solo elaborazione letteraria.

Dunque, se Faust da negromante è divenuto il progenitore dello scienziato moderno, del medico che in barba ai decreti dell'Inquisizione seziona cadaveri, non crede nell'anima né nel geocentrismo, Don Giovanni è invece diventato il libertino, l'avventuriero per eccellenza, l'uomo che proprio per la sua sensualità sfrenata si costituisce come l'elemento entropico per eccellenza di una società cattolica il cui fine precipuo, e proprio per la sua stessa sopravvivenza, è quello di controllare con una rigida morale tutti gli istinti carnali, fonte di sconquassi terribili e pericolo principe per l'esistenza delle tranquille e ordinate società borghesi.

Quando Mozart compose il suo Don Giovanni, nel 1787, erano ormai passati più di cento anni da El Burlador de Sevilla y convidado de piedra, edito nel 1625 e a sua volta tratto da un anonimo dramma scritto da un gesuita; nel 1787 la parabola esistenziale di Giacomo Casanova si era quasi conclusa, l'Illuminismo dilagava per la Francia e per le principali corti europee, e soprattutto il librettista di questa nuova opera, seconda della trilogia italiana di Mozart, e posta tra Le nozze di Figaro e Così fan tutte, era Lorenzo da Ponte, tipica figura di avventuriero settecentesco e amico di Casanova. Come si vede, c'erano tutti gli elementi perché il cortocircuito letterario-musicale-filosofico sulla figura di Don Giovanni si concretizzasse nel migliore dei modi possibili: il protagonista dell'opera non è più solo uno sfrenato amatore, è anche, né può essere diversamente, un anticlericale, un uomo che non crede né nei diavoli né nei santi, che non teme l'ira dei morti, che non esita a uccidere, un uomo insomma per cui l'eros, al servizio del proprio sfrenato narcisismo, è la nuova religione dell'uomo, perché ne esalta la naturalità, in assoluto contrasto con la religione tradizionale che vuole solo mortificarla. Don Giovanni è adesso la natura panica contro la religione, è un nuovo modo, magari esagerato, di porre l'uomo, e anche la donna, al centro dell'universo, è l'Io assoluto che in sé si specchia e di sé si nutre.

Questa purtroppo lunga premessa storico-letteraria era necessaria per valutare con cognizione di causa la regia del Don Giovanni andato in scena il 13 ottobre al Teatro Bellini di Catania: si tratta di un allestimento del Teatro della Fortuna di Fano, per la regia e i costumi di Francesco Esposito, le scene di Mauro Tinti, le luci di Bruno Ciulli e le sculture di Franco Armieri. Il regista ha infatti proposto una lettura del capolavoro mozartiano assolutamente attenta alle modificazioni del personaggio cui accennavamo prima, ponendo Don Giovanni sul punto di intersezione tra elaborazione musicale, letteraria e filosofica: lo specchio, simbolo assoluto di Narciso, domina quasi sempre la scena, insieme a grandi cammei che riproducono la silhouette del Burlador, cammei che in miniatura sono appesi al collo delle donne concupite da Don Giovanni, Donna Elvira e Donna Anna in testa. Numerosi figuranti si muovono sulla scena, ampliata da praticabili che oltrepassano la buca dell'orchestra e confinano coi palchi di prim'ordine, permettendo maggior spazio alle scorribande di Leporello e del suo padrone, che spesso agiscono anche nel parterre. Il nero e il bianco dominano nei costumi, a eccezione del rosso di Don Giovanni, così come nelle maschere grottesche molto somiglianti a quelle dei medici secenteschi durante la peste, che si aggirano silenziose per buona parte dell'opera, rimando forse a un Carnevale tragico e luttuoso di cui le allegre maschere indossate dagli attori, spesso simili a quelle veneziane, costituiscono il contraltare gioioso; maschere di una festa che comunque terminerà in Quaresima, quando l'ordine finale verrà ristabilito con la morte dell'elemento entropico per eccellenza.

Intorno a Don Giovanni è un dilagare di donne e uomini invasati dalla follia erotica, è lui l'elemento catalizzatore di un'orgia collettiva: le donne non sono sedotte, ma si lasciano volentieri sedurre, compresa donna Anna, che all'aprirsi del sipario sembra molto felice di offrirsi, se a Don Ottavio come poi dirà o a uno sconosciuto conta poco. Gli amplessi si spingono quasi sui palchi, cosa che ha urtato non pochi benpensanti, dimostrando ancora una volta, qualora ce ne sia bisogno, che sono in parecchi a dimenticare che l'opera lirica è, come un romanzo, espressione del proprio tempo, e la società che Esposito ha dipinto, inserendovi temi di ben più vasta portata psicologica, come quello dello specchio, è, lo si voglia o no, la società settecentesca, che ha partorito esseri come Casanova ma anche come De Sade: chiunque abbia letto anche solo poche pagine delle memorie di Casanova o visto qualche incisione galante del Settecento sa che le cose andavano proprio come le ha fatto vedere il regista, e che quindi non c'era nulla di sbagliato, di volgare o eccessivo nella messinscena.

Quanto al tema dello specchio, specchio che nella scena finale sarà il coperchio della tomba di Don Giovanni, quasi che l'annientarne l'immagine ne annienti anche la persona, va proprio alla radice del personaggio, evidenziandone i rimandi postumi con la figura del dandy: e infatti sembra proprio che Don Giovanni, come Dorian Gray, si esaurisca e si appaghi nel rimirarsi, così come la sua passione amorosa si esaurisce nel fugace amplesso, nelle decine che vanno ad arricchire il catalogo di Leporello. Così come la cerebralità di Faust, la sua carnalità è sterile, prende quel che capita, alla rinfusa, per il “piacer di porle in lista”: seducendo donne mantiene la propria identità, la propria maschera di seduttore, può continuare a guardarsi allo specchio, che su di lui si richiuderà saldandosi per l'eternità al suo volto.

Come si può vedere una regia molto colta, stratificata culturalmente che, pur amplificando alcuni motivi del libretto, a esso si mantiene quanto mai fedele, riuscendo anzi a evidenziare le implicazioni psicoanalitiche del personaggio, che sin dai tempi di Freud hanno costituito oggetto di studio: il Don Giovanni di Esposito è sì quello di Mozart e Da Ponte, ma è anche quello di cui parlò Kierkegaard, avendo presente proprio l'opera di Mozart, quando simboleggiò nella figura del seduttore lo stadio estetico della vita, lo stadio del ricercare sempre nuovi piaceri, del vivere momento per momento; è anche il dandy di Oscar Wilde, quel Dorian Gray che uccide il proprio ritratto per uccidere se stesso, esattamente come Don Giovanni si esaurisce nello specchio in cui si rimira.

Da un punto di vista strettamente musicale, l'orchestra del nostro teatro ha risposto con grande professionalità alla guida del direttore Salvatore Percacciolo, che ha dato prova di elevato equilibrio nella scelta dei tempi e delle sonorità, non sovrastando mai i cantanti e soprattutto rispettando la levità della partitura mozartiana, senza mai cedere a intemperanze sonore nemmeno nella scena del Commendatore. Precisi e puntuali gli interventi al clavicembalo di Paola Selvaggio. Anche il coro del Bellini, guidato da Gea Garatti Ansini, si è disimpegnato abbastanza bene, pur nei brevi momenti a esso concessi dalla partitura.

Manuela Cucuccio è stata una Zerlina civettuola, vivace e ben rifinita, dando prova di grande morbidezza negli acuti e di una notevole dolcezza di timbro, mentre Giulio Mastrototaro, nei panni di Masetto, è riuscito a rendere appieno l'irruenta focosità del giovane villano. Francesco Marsiglia, Don Ottavio, ha ricevuto entusiastici applausi per entrambe le sue arie, “Dalla sua pace” e “Il mio tesoro intanto”: tenore dalla voce limpida e tersa, ha reso il personaggio nel pieno rispetto dello stile dell'epoca, senza mai forzare né cedere a intemperanze vocali che sarebbero state assolutamente fuori luogo, dando prova di dolcezza e facilità di emissione e di una padronanza tecnica che gli ha permesso egregi legati, copertura di suono e padronanza dei passaggi di registro. Buona anche la performance di Francesco Palmieri, il Commendatore, pur se il timbro della sua voce era sprovvisto della cupezza necessaria a rendere davvero inquietante la vocalità della Statua.

Annamaria Dell'Oste, Donna Anna, pur se fornita di una buona zona media e di robusta emissione vocale, ha mostrato alcune imperfezioni nella zona acuta, che si sono spesso tradotte in acuti forzati e poco coperti, a tutto detrimento del timbro, sovente risultato alquanto aspro. Di notevole livello invece la prestazione di Diana Mian, Donna Elvira, che ha sostituito alla prima l'indisposta Esther Andaloro: soprano dotato di ottima tecnica e di un'eccellente tenuta di fiato, ha eseguito in maniera impeccabile entrambe le arie a lei affidate, e in particolare “Mi tradì quell'alma ingrata”, della quale ha superato con nonchalance tutte le difficoltà, dando prova nello stesso tempo di un colore vocale quanto mai accattivante, cui si univano acuti sempre ben coperti e buon controllo dei passaggi di registro.

Gabriele Sagona è stato un Leporello assolutamente disinvolto, di grande resa scenica e vocale: basso dal timbro alquanto chiaro ma dotato vocalmente di una discreta potenza, ha offerto al pubblico una deliziosa Aria del catalogo, cantata con levità sorniona, attenta più all'effetto d'insieme che allo sfoggio puro e semplice della voce. Attore e cantante a un tempo, cosa ormai rara ai nostri tempi, è riuscito a infondere al suo ruolo anche l'aspetto di doppio plebeo di Don Giovanni, punto cardine del libretto, piegando con disinvoltura la sua vocalità alle istanze comiche del personaggio. Vittorio Prato è stato un Don Giovanni elegante e di ottima presenza scenica, attento e misurato sia nella recitazione che nella vocalità: raffinato nel canto e dotato di buona tecnica, ha privilegiato gli aspetti giocosi del personaggio, senz'altro più adatti al suo timbro e allo stile dell'opera.

Giuliana Cutore

14/10/2017

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.