RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A Norina non basta la veletta

Il Don Pasquale andato in scena domenica 10 marzo 2019, presso il Teatro Carlo Felice di Genova, nonostante le scenografie e i costumi coloratissimi (di André Barbe) e le luci sfavillanti (di Guy Simard), è risultato, a mio avviso, uno spettacolo uggioso e poco attento al volere sia del compositore Donizetti sia del librettista Ruffini. E non si tratta tanto della scenografia in sé, né dei costumi. Colori sgargianti, prospettive fascinose, terrazza con scala praticabile, ingresso opportunamente e sapientemente squinternato di questa immaginifica pensione gestita, secondo la regia di Renaud Doucet, da don Pasquale. E pensare che il Don Pasquale è opera che si presta, “per sua natura stessa” alle innovazioni sceniche. Gli archetipi della società borghese – su cui si fonda questo melodramma giocoso ? ci appartengono ancora adesso, quindi la Roma degli anni Sessanta si offrirebbe volentieri alla tesi registica di Doucet. Donizetti stesso, in quel 1843, voleva che gli interpreti vestissero alla «borghese moderna». Gli artisti, invece (e il librettista) reputarono più conveniente «parrucconi e abitoni di velluto». Ma Donizetti rispondeva «La musica non ammette questo», all'ottusità dei benpensanti.

Quindi il punto non sta nella ricerca riuscita o non riuscita della innovazione scenica. Il punto sta nella forzatura ingiustificata che questa regia ha esercitato sull'opera.

Purtroppo (per i registi) il Don Pasquale è una macchina teatrale perfetta realizzata da quella “bestia da palcoscenico” che era Donizetti e che, stando anche alla letteratura giunta fino a noi, aveva guidato parola dopo parola, scena dopo scena, azione dopo azione, il poeta Giovanni Ruffini (che rifaceva a sua volte un vecchio libretto: quello di Anelli per il Ser Marcantonio musicato da Pavesi nel 1810). Donizetti esercitò un influsso diretto e inflessibile sul libretto, condizionando alquanto il librettista. Durante la collaborazione per la stesura dei versi, iniziata i primi di ottobre del 1842 e finita a ridosso delle prove dell'opera (intorno al 15 dicembre 1843), il poeta non riusciva a capire l'apparente intransigenza del compositore nel rifiutare intere scene che il povero Ruffini andava scrivendo e il ritoccare costantemente il testo già scritto.

Il culmine si toccherà quando Donizetti sceglierà, per l'ensemble finale, la stesura meno felice, secondo il poeta, a fronte di numerose versioni approntate. Tale fu in disappunto, che Ruffini rifiutò di riconoscere il libretto non facendo figurare il suo nome sulle edizioni a stampa del libretto e dello spartito. Ma Donizetti aveva idee chiare sul da farsi, idee, che spesso sfuggivano la poeta, seppure colto e competente, in fatto di drammaturgia musicale e su come rendere al massimo, tra l'altro, le qualità dei quattro cantanti principali che aveva a disposizione per la prima parigina: il baritono Tamburini, il basso buffo Lablache, il soprano Giulia Grisi, il tenore Mario De Candia.

Macchina teatrale, si diceva. Una macchina teatrale che prevede, al suo interno, una metateatralità, un teatro nel teatro rappresentato dal travestimento di Norina in Sofronia. In questa edizione, Norina alias Sofronia entra in scena col volto coperto da una semplice veletta in modo tale che tutti, compresi gli innumerevoli gatti-fantoccio sparsi lungo la scena, la riconoscono. Quindi l'esclamazione «Misericordia» (Atto II, scena seconda) di don Pasquale non ha alcun senso visto che la veletta di Norina è assolutamente trasparente. A Norina non basta la veletta per essere Sofronia: deve avere (almeno) un velo sul volto. Ne va della credibilità del personaggio. Ne va della specificità del teatro. Mi si dirà che le incongruenze fanno parte del melodramma. Certamente. Ma non di tutti i melodrammi. Quanto meno non nel Don Pasquale che, aldilà del brio e dell'eleganza della melodia (sottolineata dalla magistrale orchestrazione) è fulgido esempio di limpida purezza formale (sia scenica, sia musicale) che male, anzi malissimo, si adatta a miagolii, cacchette e guazzabugli onomatopeici di cui è farcita questa edizione genovese.

L'opera, così come l'ha voluta Donizetti, è ricchissima di spunti ironici e graffianti, soprattutto verso la società borghese dell'epoca (ma anche odierna) e occasioni divertenti che non richiedono invenzione alcuna. Cosa che il regista ha, bellamente, ignorato. Sarebbe bastato seguire le indicazioni del libretto (semplicemente?) senza affannarsi a dover aggiungere forzatamente antefatti che non esistono nell'opera e che, anzi, portano al travisamento dei caratteri dei personaggi. Il regista ha aggiunto un fotoromanzo in appendice (del libretto e dell'apertura dello spettacolo durante l'esecuzione della sinfonia) nel quale si parla dell'amore di don Pasquale per i gatti (?) e di come don Pasquale sia così sfortunato nel subirne l'allergia (?). Bene (si fa per dire: a proposito di incongruenze, questa non è male!). Ma ci si è dimenticato bellamente che don Pasquale prima di essere un personaggio dell'opera di Donizetti è una maschera romana. Nella fattispecie, la maschera rappresenta un patrizio romano celibe e all'antica, facoltoso e credulone. Indossa una parrucca grigia costantemente incipriata e profumata. Veste una ricca palandrana, brache al ginocchio e calza scarpe lucide con fibbia. Di cognome fa De' Bisognosi, come l'omologo Pantalone, ma egli odia questo appellativo poco adatto alla sua illustre prosapia ed è meno burbero e più accomodante della scorbutica maschera veneziana. Ci si è dimenticato, pure, che don Pasquale porta con sé tanta letteratura teatrale. Non è propriamente il primo venuto sulla scena.

Ci permettiamo, senza voler apparire eccessivamente pedanti, alcuni esempi. Francesco Maria De Luco Sereni, Il Fausto, overo il sogno di don Pasquale (1665); Anonimo, La scuola degl'amanti o' vero La costanza in amore o' Il tutore tiranno commedia erudita e ridiculosa con il ridicoloso prologo di don Pasquale Giudice, & altro prologo eruditissimo intitolato L'innocenza, da rappresentarsi in Roma, nel presente anno (1701?). [In Roma: si vendono da Giuseppe Vaccarj, all'insegna di S. Giuseppe]. Inoltre, sempre di Anonimo, La costanza in amore, favola pastorale da rapresentarsi nella sala dell'illustriss. sig. conte Antonio D'Alibert agl'orti di Napoli nel carnevale dell'anno 1717. [In Roma: si vendono a Pasquino da Pietro Leone all'insegna di San Giovanni di Dio]. Ancora è da ricordare, scritta alla fine dell'Ottocento da Lorenzo Peppi detto Pepparello, La disgraziata luna di miele del sor Pasquale.

Nel libretto del Ruffini, Don Pasquale è un «vecchio celibatario tagliato all'antica, economo, credulo, ostinato, buon uomo in fondo». In questa edizione la maschera del facoltoso credulone è stata trasformata in un proprietario di una fatiscente pensione che rende poco credibile la specificità del personaggio. Il don Pasquale romano vive (da sempre) nel grande palazzo avito ed ha per compagnia la solitudine, interrotta, talvolta, dallo sparuto gruppo di servi e dal nipote. In questa edizione, un andirivieni di comparse quali avventori del triste (quanto colorato) albergo non dà requie, distraendo continuamente lo spettatore e non aggiungendo assolutamente nulla né alla storia, né allo spettacolo. Inoltre Norina, «giovane vedova, natura subita (immediata, ndr), impaziente di contraddizione, ma schietta ed affettuosa» nella scena quinta del primo atto ci prova spudoratamente con Malatesta nonostante costui sia «amicissimo di Ernesto», ma tant'è! Sarà la navigata «giovane vedova» o la «natura subita» oppure «impaziente di contraddizione» che l'hanno resa volubile? Ma insomma, è amica di Ernesto o del giaguaro? Di Ernesto, pare.

Assistendo allo spettacolo si ha avuto la sensazione di uno scollamento tra quello che diceva e voleva l'orchestra (splendido l'assolo di tromba della prima scena del secondo atto), magistralmente diretta da Alvise Casellati e quello che facevano e cantavano i cantanti sul palcoscenico. Giovanni Romeo (un volenteroso Don Pasquale), Desirée Rancatore (una Norina non propriamente in giornata: stentata nel registro centrale), Juan Francisco Gatell (un onesto Ernesto), Elia Fabbian (ottimo Malatesta), Roberto Conti (un notaro). Ad ogni modo, ben fatto il duetto dei due buffi (Atto III, scena V) e ben condotta la serenata del tenore. Ottimo il coro.

Donizetti ha avuto il pregio col suo Don Pasquale di trasformare il contingente nell'eterno: tale cifra è propria di ogni capolavoro. La regia di Doucet è riuscita, bontà sua, a fare il contrario trasformando un capolavoro in una ciofeca.

Francesco Cento

18/3/2019

Le foto del servizio sono di Marcello Orselli.