RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Lieta no, ma sicura dell'antico dolor

In te, morte, si posa nostra ignuda natura; lieta no, ma sicura dell'antico dolor. Queste parole, messe in bocca da Leopardi alle mummie che affollano lo studio di Federico Ruysch ben rendono lo stato d'animo delle due protagoniste del dramma di Josep Maria Benet i Jornet, voce tra le più interessanti del contemporaneo teatro catalano, andato in scena allo Stabile di Catania il 16 marzo, con repliche fino al 21: Due donne che ballano. Cosa ballano queste donne? Ballano la loro vita, una squallida vita fatta di miseria, di insoddisfazione, di rimpianti, di rimossi non elaborati, di lutti, ma soprattutto un'esistenza senza un raggio di sole, immersa in un eterno crepuscolo di noia, di dolore, di piccole case dall'intonaco scrostato, di sedie scomode, di mobili spaiati, di vetri polverosi, di giornate tutte uguali, di delusioni orgogliosamente celate a tutti, anche a se stesse. Due donne sole, alle quali l'autore nega persino un nome, che si differenziano l'una dall'altra solo per i ruoli: una badante né giovane né vecchia, laureata sottoimpiegata, col cocente dolore di un figlio morto a causa del compagno, dolore che non riesce o forse non vuole elaborare, e un'anziana signora, amara e sarcastica, curiosa sino al parossismo, che vive rintanata in una decrepita casa, circondata da medicine e da una maniacale collezione di giornalini, unica rivalsa ad una vita di miseria. I giornalini sono ciò che tutti i bambini avevano, tutti tranne lei, perché la sua famiglia era troppo povera, e adesso sono un feticcio che di fatto le rende sopportabile l'esistenza, dandole al tempo stesso un fine, quello di rintracciare l'unico pezzo che manca alla sua sterminata collezione.

Queste due donne sembrano odiarsi, all'inizio, ma solo perché sono troppo simili, e al tempo stesso paradigma, ciascuna a suo modo, di una condizione umana intessuta di povertà, disinganno, tedio e dolore: la padrona si aggrappa ai suoi giornalini, visto che i figli sono solo ombre diafane, la badante al suo dolore di madre, al quale non vuole rinunciare nemmeno un istante, convinta com'è che solo il suo pensiero tenga ancora in vita almeno l'ombra del figlio perduto.

Una danza macabra, dove è la morte a suonare, una morte cercata e desiderata, unico evento in grado, paradossalmente, di infondere allegria a queste due sventurate. La vecchia apprende un giorno che la cacceranno fuori dalla casa nella quale è nata, casa che è stata nido e che adesso è tana: i figli hanno deciso di collocarla in un ospizio dove non potrà portare i suoi giornalini. La badante ha tentato invano di avere rapporti con un uomo, ma si è convinta che è impossibile: è impossibile perché è lei a non volere, perché amare qualcuno le impedirebbe di pensare ogni istante al figlio morto. Improvvisa giunge per entrambe l'idea di suicidarsi insieme: entusiaste, si preparano allegre come ad una festa, senza che nemmeno per un istante le sfiori l'idea della divinità, dell'aldilà, del salto nell'ignoto. Ingurgitano tranquillanti e bevono acqua, e l'euforia cresce, perché finalmente stanno per liberarsi di quel punto acerbo che di vita ebbe nome

Un dramma di una tristezza infinita, magistrale nella sua semplicità desolata, nel suo sfiorare con mano leggera le pieghe più dolorose dell'esistenza, nella sua totale assenza del divino, nel ridurre i personaggi a simboli di una condizione umana ridotta alla vita nuda. Incatena lo spettatore passando dal comico al tragico, e la conclusione giunge certo prevista, ma al tempo stesso brutale come un pugno nello stomaco. Esempio di ciò che deve essere il teatro moderno, inteso a coinvolgere nel dolore e non a rasserenare, la pièce ha trovato nella regia di Veronica Cruciani e nelle scene di Barbara Bassi il suo spazio ideale, cupo e desolato come gli abiti da quattro soldi, opachi e scialbi indossati dalle due bravissime attrici Maria Paiato, l'anziana signora, e Arianna Scommegna, che hanno retto la scena senza un attimo di cedimento, con una mimica magistrale unita ad una dizione perfetta, che permetteva di comprendere perfettamente anche i borbottii della bisbetica padrona. Non un movimento esagitato, non un gesto fuori posto, in una totale e coinvolgente adesione ai personaggi, che ha meritato loro lunghi ed entusiastici applausi, anche quando, allo squillo di un cellulare, espressione della classica maleducazione di tanti spettatori, le due attrici hanno dato vita a battute a soggetto recitate con una nonchalance eccezionale, traendole con estrema maestria dal tessuto stesso del dramma.

Giuliana Cutore

18/3/2017

La foto del servizio è di Marina Alessi.