RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Due Norme in tre giorni

Norma, si sa, è un capolavoro in bilico tra neoclassicismo e romanticismo. Opera bifronte dunque e, anzi, bifronte al quadrato. Giacché l'interrogativo da porsi, a questo punto, diventa un altro: romanticismo, sì, ma quale? Quello nella sua accezione più corrusca e tempestosa, dove gli sconvolgimenti del cuore e le forze della natura si coalizzano in una cornice marmorea nell'involucro, eppure infuocatissima al suo interno? O non, piuttosto, un romanticismo incantato e sognante, da declinarsi nella sua dimensione patetico-elegiaca? Da questo bivio della drammaturgia musicale discenderà poi un'ulteriore biforcazione, più pertinente all'estetica vocale: le Norme che (fermi restando, in entrambi i casi, gli ineludibili desiderata belcantistici, a cominciare dal canto di coloratura) si sostanziano nella dimensione del soprano drammatico di agilità e quelle, più soavi e meno taglienti, incanalate nella “taglia” del soprano lirico di agilità. Il caso vuole che, sul finire di marzo, a Parma e Torino siano andate in scena due diverse produzioni, affidate a protagoniste – l'americana Angela Meade sul palcoscenico parmigiano, la campana Gilda Fiume su quello torinese – ben rappresentative dell'una e dell'altra tradizione esecutiva.

La prima è una forza della natura al servizio dei prodigi della tecnica: voce copiosa, fluente, limpida in alto e, al contempo, con un timbratissimo registro di petto saldato alla perfezione con il resto dell'edificio vocale; ma anche cantante che con la voce può fare praticamente tutto, in un assoluto dominio dell'emissione che aggira ogni ostacolo della scrittura belliniana. Il primigenio nucleo colore/volume resta quello di un espanso, plastico soprano drammatico, ma la Meade, arpeggiando su tutte le corde del personaggio, non sembra neppure insistervi più di tanto: forse perché consapevole che bastano le qualità naturali del suo strumento per raggiungere apici di drammaticità canora quintessenziata, o forse perché una presenza scenica piuttosto infelice tende a spingerla verso la dimensione della cantante da concerto.

Gilda Fiume non sfoggia una vocalità altrettanto abbagliante, ma pure lei s'impone quanto a bagaglio tecnico, con scale cromatiche discendenti sciorinate al millimetro e un «sacro vischio io mieto» risolto con una messa di voce da far sobbalzare sulla sedia anche l'ascoltatore più navigato. La complessione più lirica, rispetto alla Meade, la spinge nella direzione del nitore piuttosto che della forza di penetrazione, e d'altronde non a caso si tratta di un'allieva di Mariella Devia (la più paradigmatica, fino a ieri sera, tra le Norme fedeli alla musa del lirico di agilità): ma più che echeggiare la sua maestra – dalla quale semmai ha ereditato il difetto della dizione poco intelligibile – è Renata Scotto il modello cui la Fiume sembra guardare: donna prima che sacerdotessa, dolorosa piuttosto che fiammeggiante, con uno slancio tutto di costruzione (né può essere altrimenti con la relativa fragilità del registro centrale dei puri soprani lirici) e tuttavia catturante grazie all'arte di chi sa “inventare il vero”.

Con l'eccezione di Oroveso (Michele Pertusi, ormai usurato ma sempre autorevole, ha buon gioco rispetto allo scialbo Fabrizio Beggi), il resto dei cast vede un netto vantaggio della compagine torinese. In teoria, avere a Parma un soprano lirico come Carmela Remigio era un'ottima occasione per tentare la carta della coppia Norma-Adalgisa giocata in chiave tutta sopranile, all'interno però di fisionomie assai diverse. Purtroppo quella della Remigio di oggi è voce depauperata nel colore e faticosa nell'articolazione: insomma un “lirico opacizzato” non troppo diverso da tante Adalgise mezzosopranili, mentre l'ombreggiata morbidezza timbrica di Annalisa Stroppa plasma un'Adalgisa fresca e sensuale, oltre che in fertile dialettica con la vocalità luminosa della Fiume. Ma a far pendere l'ago della bilancia verso la Norma di Torino è soprattutto il tenore: Stefan Pop appare più voluminoso che squillante, più epidermico che carezzevole e, come seduttore, occhieggia a un Pinkerton che flirta con le geishe piuttosto che a un proconsole romano. Dmitry Korchak invece sfrutta al meglio le sue caratteristiche sovracute, in punto di diritto poco calzanti al baritenore qui concepito da Bellini, per rifarsi alla tradizione preziosa e dimenticata (Lauri Volpi, Filippeschi) dei Pollioni dal canto slanciato e “verticale”, anziché massiccio e “orizzontale”. E se resta fermo che al di sotto del passaggio il volume si assottiglia, ne sortisce un personaggio di autentica nobiltà: dove il transito dal Pollione virulento mandrillo al Pollione dolorosamente consapevole viene scavato e motivato, anziché sopraggiungere quasi senza preavviso al calar di sipario.

Poco da dire invece sulle messe in scena, se non che l'ambientazione ottocentesco-classicista (ma terremotata da luci psichedeliche e un finale artatamente barbarico) dello spettacolo di Nicola Berloffa a Parma ha il sapore di un esperimento irrisolto; e che la non-regia di Lorenzo Amato, al Regio torinese, deve tutto alla bellezza – un vero spettacolo all'antica italiana – delle scene di Ezio Frigerio e dei costumi di Franca Squarciapino. Ancor più scarna, poi, la possibilità di dibattito che scaturisce dalle due concertazioni: Francesco Lanzillotta, a Torino, sfoggia un arco dinamico di rimarchevole ampiezza, spesso però scantonando nel calligrafico, mentre Sesto Quatrini si limita a tentare di far quadrare i conti con un'orchestra volenterosa e un po' raccogliticcia. Resta solo la morale che una Norma con i tagli – quale la si è vista a Parma – risulterà sempre più lenta di una Norma integrale, com'è stata quella di Torino.

Paolo Patrizi

1/4/2022

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci (Parma) e Andrea Macchia (Torino).