RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il testamento di Janácek

Nelle Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, cronaca della prigionia dello scrittore, i reclusi guardano la vastità del mondo esterno attraverso le fessure di una palizzata, anelando a una impossibile libertà. Al di là dei ceppi e delle catene, la vastità della Siberia è essa stessa ostacolo insormontabile per il detenuto. Da questa testimonianza, grazie alla quale Dostoevskij rinnovò la propria reputazione letteraria ponendo le basi per i capolavori futuri, Janácek costruì l'estremo lascito della sua peculiare carriera di operista. Da una casa di morti è un lavoro arduo e oscuro, che gli permise di riepilogare le tematiche a lui care, dall'amore alla solitudine, dall'odio alla compassione. Il compositore ceco, raramente presente nella storia del Teatro dell'Opera di Roma, torna ora con questa partitura del tutto particolare, pervasa da una profonda tragicità.

Trasponendo l'azione dalla colonia penale zarista a una prigione statunitense, il regista Krzysztof Warlikowski muta le prospettive originarie. Delineando uno spazio chiuso, affine a tanta cinematografia carceraria, accentua la dimensione claustrofobica ma rinuncia al suo contraltare, costituito dalle sconfinate steppe kirghize e dalla vastità inattingibile della natura. Lo spettacolo è indubbiamente ben recitato e costruito con maestria, anche se alcune scelte non convincono. Distraenti appaiono le interviste proiettate sul sipario metallico durante i preludi orchestrali, come quella a Michel Foucault all'inizio dell'opera. Se il loro scopo è quello di focalizzare l'attenzione sulle tematiche della giustizia, del castigo e della morte, la loro lettura distoglie dall'ascolto della fittissima e preziosa trama orchestrale. Nell'ambito di una drammaturgia esile, concentrata sull'analisi psicologica del forzato, Warlikowski cerca di evitare qualsiasi rischio di tedio mettendo letteralmente in scena i racconti dei prigionieri; Luka, il quale ha accoltellato un tirannico comandante, Skuratov, che ha sparato al promesso sposo della sua donna, e infine Šiškov, che in un eccesso d'ira causato dalla gelosia ha ucciso l'amata Akulka. Azioni dal forte impatto emotivo, che a tratti paiono sacrificare il senso di smarrimento e di abbandono in favore di una recitazione costantemente tesa e concitata. Altra licenza poetica il giocatore di basket che compare all'inizio, viene ferito e ritorna alla fine, il quale sostituisce l'aquila offesa del testo originario quale simbolo di libertà frustrata e infine riconquistata.

Convince invece pienamente l'esecuzione orchestrale, condotta con maestria, sensibilità coloristica e capacità introspettiva dal giovane Dmitry Matvienko. Ottima la prova del coro, al quale vengono affidati interventi colmi di straziante dolore e di arcano misticismo. Nell'ambito di un'opera collettiva, che non lascia particolare spazio alle individualità, il cast si fa apprezzare per affiatamento e capacità attoriali. Una menzione meritano Mark Doss (Gorjancikov), Julian Hubbard (Skuratov), Pascal Charbonneau, un Aljeja fragile e toccante, Leigh Melrose nei panni di uno Šiškov preda di violente oscillazioni emotive e Carolyn Sproule, convincente nel ruolo di una esuberante prostituta abbigliata in stile western. Pubblico non particolarmente numeroso, evidentemente per pigrizia intellettuale. Il teatro di Janácek merita ben altra attenzione.

Riccardo Cenci

26/5/2023

La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.