RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Un Maggio rinnovato per Don Carlo

Sottoposto a lavori di rinnovamento per oltre un anno, il palcoscenico della Sala Grande del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino può ora vantare una macchina scenica di prim'ordine, con piattaforme mobili, una anche girevole sullo sfondo, carri per i palcoscenici laterali e altre migliorie, che permetteranno in futuro di sfruttare tale “cuore” tecnologico per le opere che verranno allestite.

L'inaugurazione non poteva che avvenire in una concomitanza di buoni auspici. Anzi tutto la scelta del Don Carlo di Verdi, nella versione italiana in quattro atti – la sesta, a partire dall'Urtext francese in cinque, scritto per Parigi nel 1867 – che vide la luce alla Scala di Milano il 10 gennaio 1884: pur non configurandosi appieno come un grand opéra, dai cui lombi deriva, conserva una grandiosità di scene e di sviluppi, tale da farne un degno titolo inaugurale, non solo del rinnovato palcoscenico, ma anche del nuovo anno, posizionato com'è in calendario tra dicembre 2022 e gennaio 2023, il foyer ancora addobbo di sgargianti alberi di Natale. Di poi, il fatto che il Don Carlo viene a chiudere sia la trilogia “spagnola” di Verdi proposta quest'anno, iniziata con Trovatore a ottobre e con Ernani a novembre, sia il Festival d'Autunno del Maggio. In terzo luogo, il cast di prim'ordine, in parte in continuità con le opere precedenti – Semenchuck, ex Azucena, ora è la Principessa di Eboli, Francesco Meli impegnato, come in Ernani, nel rôle-titre –, sotto la bacchetta del direttore principale Daniele Gatti. Infine, il pluripremiato Roberto Andò alla regia, il quale, a dispetto delle tanto decantate potenzialità del palcoscenico, fa di quest'ultimo un uso molto parco. La cosa più scontata sarebbe stata sfruttarlo sino in fondo, sfoggiandone gli effetti speciali, i tagli prospettici, e così via, un po' come quando si prova un giocattolo nuovo. La sobrietà della regia di Andò va invece in direzione opposta, un'impostazione sostanzialmente uguale per tutti i quadri dell'opera, cosa che ne costituisce il punto di forza ma che talvolta incoccia i limiti di una stereotipata prevedibilità.

Ma viva una stereotipata prevedibilità, rispetto a Violette transgender o Rigoletti giostrai. L'impianto di base è “a scena aperta”, con elementi ai lati e sullo sfondo che possono ricordare lisce impalcature in cemento di fabbriche dismesse, su cui si muovono verticalmente pannelli che aprono e chiudono porte e passaggi. Il centro della scena è sostanzialmente libero, con pochi ma evocativi, funzionali elementi a connotare ambienti e situazioni: mozze colonne tortili, ma col reliquato della loro porzione superiore anziché inferiore, croci dipinte e blocchi di marmo con teschi – fredde panche squadrate o pietre tombali – per le scene del monastero; qualche albero – pioppi o cipressi anziché gli abeti del libretto – ma già grazie che non sia ambientato, che so, in una corsia di supermercato! – per la scena della canzone del velo; alberi scheletriti e neri, troncati nella loro silhouette , come per le colonne, alla loro porzione superiore, per i giardini della regina, più alberi da «orrido campo» che ridente verzura; per sommi capi, uno gabinetto di Filippo II con pile di libri e altri teschi, svariate candele, molte delle quali «presso a finir» (la fedeltà alle didascalie…); forse meno convincente una prigione di Carlo ampia e luminosa, senza sbarre o altri segni di costrizione. Scene in generale dai connotati foschi, opprimenti, anche simbolicamente (i cipressi, le candele consumate, le colonne e gli alberi mozzi, iconografia barocca classica della morte) che riflettono bene la Spagna cinquecentesca greve e retriva, saggiamente quasi sempre poco illuminate, in penombra (scene e luci di Gianni Carluccio): un'impostazione volutamente pessimistica, stando alle stesse parole di Andò, oscurantista nel vero senso della parola. Certo, un poco più di varietà sarebbe stata gradita, vista anche la spoglia sobrietà un po' sterile delle scene; ma a questo provvedono gli interventi video di Luca Scarzella, che proiettano edere rampicanti al lati, nelle scene ambientate in giardini, o fiamme da terra, nel punto dove i quattro figuranti vengono arsi durante l'autodafè. A questo proposito è interessante notare come i costumi di Nanà Cecchi si fregino di un particolare di fedeltà storica: i lunghi cappelli da somaro, conici, slanciati, indossati dai suddetti figuranti concordano con le illustrazioni dell'epoca. E in generale, se non sono del tutto fedeli, per lo meno mostrano grande coerenza e credibilità; ovunque dominano le tinte scure, eccezion fatta, curiosamente, per il Grande Inquisitore, biancovestito, portato in scena in sedia a rotelle – dalla quale poi si alza per sedersi sulla sedia di Filippo II, quasi a soppiantare col suo potere spirituale quello temporale – e accompagnato da due figuranti, anch'essi biancovestiti e di cui uno nano, che, per contrasto, fa apparire la figura del «cieco nonagenario» ancor più temibile, statuaria e maestosa (Calvino insegnava che per ingigantire i tratti di un personaggio, ad esso ne va affiancato uno con tratti opposti: vedi Don Chisciotte e Sancho Panza). Dal canto suo, Andò tratta i suoi personaggi in modo piuttosto statico, non li dota di grande mobilità sul palcoscenico, e soprattutto le masse corali vengono penalizzate da un trattamento a coro greco, tutti compatti da un lato, attorno a un personaggio o divisi in ali simmetriche (scena dell'autodafè). Non se ne ricava gran danno, tuttavia, e lo spettacolo convince, grazie anche a particolari gestuali che tratteggiano le psicologie dei personaggi e li rendono vivi.

La discontinuità caratterizza la direzione di Gatti; è pur vero che nel Don Carlo il trattamento delle forme si fa più fluido, un continuo passare da una scena all'altra senza quasi cesure, cesure annullate da riusciti passaggi orchestrali, e che l'orchestra assume un'importanza maggiore rispetto alle opere del passato (forse è l'unica opera, senza contare il Requiem, che non è un'opera, a prevedere quattro fagotti anziché due, e l'unica a impiegare il rinforzo grave del controfagotto, a parte un rifacimento del Macbeth, come la “questione Degoli” a Lascia o raddoppia portò a conoscenza del grande pubblico): e tuttavia rimane un'opera in cui l'importanza dell'orchestra va sottomessa o al massimo commisurata a quella delle voci. Spessissimo, invece, Gatti soffoca letteralmente le voci, le annega nel mare in tempesta dell'orchestra, rendendo difficoltoso udire e distinguere i cantanti. È così per quasi tutta la prima parte dell'opera, per lo meno per i primi due atti. La concertazione del terzetto Don Carlo-Posa-Eboli a inizio secondo atto dispone voci e orchestra sullo stesso piano, fondendoli in un tutto ben riuscito e amalgamato, che tratta le voci come strumenti concertanti; ma è l'unica eccezione: Don Carlo e Posa coperti nel “duetto dell'amicizia”, Don Carlo ed Elisabetta coperti nel duetto subito seguente… L'avvertito squilibrio è a favore del côté strumentale, che per parte sua, disponendo degli ottimi professori dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, perviene a ottimi risultati specialmente nei preludi e nei raccordi orchestrali (carica di misteriosi e funesti presagi la frase d'apertura dei corni del preludio all'atto primo, meditabondo e avviluppato su se stesso il preludio all'atto terzo), dove si nota anche un buon scavo della partitura, pur senza molte cesellature: ma sempre di squilibrio si tratta. Squilibrio che viene corretto nel terzo e quarto atto, dove si possono apprezzare i solisti con maggior nitore. I tempi staccati sono di tradizione, i cantanti a loro agio nella via di mezzo di agogiche né troppo serrate, né troppo lasse. Ben riusciti anche i passaggi ove il tratto psicologico emerge maggiormente, come il duetto Filippo II/Posa (fine primo atto), Ella giammai m'amò, scena del Grande Inquisitore e duetto Don Carlo/Posa (terzo atto).

I solisti, si diceva. Complessivamente buone voci, per quanto i distinguo siano d'obbligo. Si parte col già citato Francesco Meli nel ruolo di Don Carlo, che si conferma vocalità verdiana nel pieno delle sue energie e delle sue capacità, in stato di grazia (a parte qualche sforzato sugli acuti, «sarò tuo salvator…» – ma c'è da tener presente la parte disseminata di asperità, la tendenza di Gatti a “coprire” e la grande distanza tra pubblico e cantante, con una vasta buca d'orchestra non… “imbucata”, molto vicina al palco, e un'orchestra nutrita, cinque contrabbassi, che vuol dire quaranta/cinquanta archi, più fiati e percussioni –) sia come tenuta ed emissione di voce, sia come presenza scenica. L'unica voce chiara del versante maschile, che si muove fra tre bassi e un baritono, è anche la migliore quanto a resa complessiva, tra vocazione e mestiere (per quanto il suo repertorio d'elezione sia, mia opinione, il primo e il medio Verdi, non questo, che si avvia verso i capolavori ultimi). Il Rodrigo (marchese di Posa) di Roman Burdenko è tecnicamente valido, ma non riesce a emozionare: si cala nel ruolo secondo le indicazioni registiche – invero piuttosto statiche, come è stato rilevato – ma senza tradurre in pratica le indicazioni di Gatti che, voglio sperare, si sarà adoperato per sbozzare al meglio questa riuscita figura di baritono. L'interpretazione difetta invece di tridimensionalità e risulta un po' impersonale, ma riesce però a distinguersi nel grande duetto con Filippo II al termine dell'atto primo e in O mio Carlo!, il grande addio dell'atto terzo. E vien da credere che, se fosse stato per lui, il suo personaggio sarebbe stato reso ancora meglio. Convincente invece all'inizio, poi sempre meno, il Filippo II di Mikhail Petrenko, basso dotato di tutte le carte in regola per dar vita al villain della situazione, vocalmente e attorialmente: credibile nel già ricordato duetto con Posa, nella parte di un re provocato dalle parole del suo fedele («Orrenda, orrenda pace! la pace è dei sepolcri!»), ma che mantiene la distaccata dignità del suo rango, perfino ironico, di un'ironia nera, quando sottolinea che la pace delle Spagne è garantita dal suo pugno di ferro; ben fatto anche nella scena dell'autodafè, altero, spietato coi Deputati fiamminghi. Non così persuasivo nella grande scena a lui dedicata, Ella giammai m'amò, quando il personaggio confessa la sua irreparabile solitudine, lo sconforto di non essere amato, la sua gelosia, lati che un re non può far uscire dalle sue stanze private: a fronte di un'introduzione orchestrale condotta, si diceva, comme il faut, il volume vocale non appare sufficiente per la parte, il fraseggio è impreciso, la dizione buona ma non scavata; il timbro resta chiaro, diluito, adatto per parti più dialogate, come il duetto con Posa, ma non per questo soliloquio intimo, dove ogni nota è da calibrare perché contenutisticamente differente da quelle che precedono e da quelle che seguono, ogni parola da tornire e valorizzare. I laudatores temporis acti hanno nelle orecchie le vocali rotonde, belle piene, di un Boris Christoff (ma anche di un Ghiaurov, di un Burchuladze, di un Furlanetto, o del recentissimo Pertusi al San Carlo di Napoli, che, senza essere alla pari dei precedenti, porta alta la bandiera dei bassi italiani in questi anni); ma non serve rifarsi a esempi preclari, quanto prendere atto che voci del genere, lungi dal ritenere che non possano più ritornare, al momento non ci sono. E bisogna fare con quel che si ha. Tuttavia quest'aria ha alle spalle una storia di grandi interpreti, coi quali il paragone viene spontaneo. Il confronto serrato col Grande Inquisitore di Alexander Vinogradov (alla sua sola seconda volta nei panni di questo personaggio, già padroneggiato a dovere, per quanto ve ne siano di migliori), che entra in scena subito dopo, è impietoso: si ha a che fare con un volume decisamente maggiore, decisamente più adatto alla parte, che non perde di corposità nelle pur difficili note acute («tranquilli lascio andar») e si ammanta di un'aura luciferina in quelle gravi, sottolineate dal già menzionato strisciante controfagotto. L'interpretazione ne giova, al netto di qualche veniale imprecisione di dizione; e lo stesso valga per il Frate di Evgeny Stavinskiy, voce adeguata, prestazione valida.

La controparte femminile è dominata dall'ottima Eleonora Buratto, che ripropone qui, dopo averla interpretata per la prima volta appena un mese fa al Metropolitan Opera di New York, la sua Elisabetta di Valois, stupenda sia per la salda tenuta vocale, sia per il ruolo partecipato e convinto; dalla sua interessante interpretazione emerge una regina costretta suo malgrado ad essere ciò che non vuol essere, un'amante forse più trasognata che volitiva (memorabile in Tu che le vanità sopra tutto il resto), ma forte di una grande integrità morale nel duetto con Eboli. Altalenante invece la Principessa di Eboli di Ekaterina Semenchuk: sebbene l'avessi ammirata come Azucena, ponendo l'accento sul timbro non necessariamente scuro (vedasi infra, per le colonne di questa testata), e pur recitando bene, qui appare a suo agio nella parte più drammatica del terzetto del secondo atto e in O don fatale, al cui termine riscuote un notevole e meritato successo di pubblico, pur uscendone provata (e l'ultima parte del brano rimane in effetti vittima di questo affaticamento), rispetto alla più leggiadra e frivola canzone del velo, dove i gorgheggi sembrano appesantiti da una voce stanca, o forse non predisposta quella sera alle agilità brillanti.

Comprimariato molto valido quello di Nikoletta Hertsak (Tebaldo), Joseph Dahdah (Conte di Lerma e Araldo reale, anch'egli nuovamente reclutato dopo il Messo del Trovatore e il Don Riccardo di Ernani), Benedetta Torre (Voce dal cielo) e dei Deputati fiamminghi Davide Piva, Eduardo Martinez Flores, Matteo Torcaso, Matteo Mancini, Volodymyr Morozov, William Hernández, Lodovico Filippo Ravizza e Roman Lyulkin. Pregevole anche il Coro della Casa, istruito da Lorenzo Fratini.

Christian Speranza

11/1/2023

Le foto del servizio sono di Michele Monasta.