RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Largo ai comedians!

Con buona pace delle fastose, storiche trasposizioni (meglio sarebbe chiamarle ri-creazioni) che ne ha fatto nei secoli l'opera lirica – in testa Macbeth, Othello, Falstaff, Romeo et Juliette – che Shakespeare val bene non uno ma cento, mille, un milione di musical, è cosa antica. Così come non è una novità mettere in musical quella farsa incontenibile – vis comica forsennata ma anche assennata fonte di studio per psicanalisi e psicanalisti – che è la Comedy of errors. Parente riconosciuta di Plauto (Menecmi e dintorni), certo – soprattutto se si accetta, una volta per tutte, che Shakespeare è il colto, blasonatissimo XVII Conte di Oxford e William of Stratford figlio del guantaio, illetterato al punto da non saper scrivere il proprio (falso?) cognomen – ma anche figlia legittima di follie elisabettiane lautamente condita da geniali ammenicoli linguistici ovvero spun e wordgame. Uno per tutti, il musical che se ne fece nel 1938, The boys from Syracuse ricco di evergreen visto che a firmarlo furono gli intramontabili Rodgers&Hart con la catturante, tra le altre, Falling in love with love.

Pure, la confezione che ne fa Henry Mason per il Festival di Salisburgo – in cui il play più breve del Bardo (appena due ore e mezza contro le cinque dei “comandati” cinque atti delle tragedie) è debitamente ribattezzato Die Komödie der Irrungen – vince per giocosità d'interpretazione, innanzi tutto. E citeremo hic et nunc, i pazzamente “doppi” Thomas Wodianka (Antifolo di Siracusa e Antifolo di Efeso) e Florian Teichtmeister (Dromio di Siracusa e Dromio di Efeso) e con loro le splendide donne, Meike Droste-Adriana e Elisa Plüss-Luciana. E ancora Roland Renner (Egeon) e Barbara De Koy (Emilia), Karola Niederhuber, Claudia Kottal, Claudius von Stolzmann, Alexander Jagsch, Rafael Schuchter, Reinhold G. Moritz, Christian Graf e, come da ricetta drammaturgica, due gemelli veri, i giovanissimi Theodor e Konstantin Gutternig.

Largo ai comedians, certo: sono attori, cantanti e “cantattori”, come detta la religione del musical e, all'occorrenza, sanno essere mimi, ballerine, acrobati e financo trapezisti – ma non solo.

Veniamo alla vicenda ma giusto un cenno e non staremo qui a distillarne i debiti plautini: in piena, letale rivalità tra Siracusa ed Efeso, Egeone di Siracusa, colpevole d'aver navigato verso la città rivale è condannato a morte ma riesce ad impietosire Solino, duca di Efeso, con il racconto del suo naufragio in cui ha perso la moglie Emilia, uno dei suoi gemelli, Antifolo ed il suo servo Dromio. Va da sé che anche quest'ultimo dispone di regolare fratello gemello ed entrambi i “doppi” si trovano giusto giusto in Efeso. Sicché due “Antifoli” e due “Dromi”, ad Efeso e a Siracusa. Di qui, il gioco di slap stick è presto detto: ognuno si confonde e nessuno riconosce nessuno neanche se stesso, ci sono consegne sbagliate, mogli sbagliate e, in beffardo, pruriginoso happy ending, un'austera badessa che si scopre essere Emilia, moglie di Egeone ch'egli credeva perduta.

Si diceva della cifra Henry Mason. E sia, la percorreremo in ordine d'entrata. Ad accogliere lo spettatore – a parte due finti tutori dell'ordine: un carabiniere ed una sorta di ufficiale di polizia che, poco più tardi, balzeranno in scena tra buffi inciampi e buffi qui pro quo – è un classico trio jazz. Contrabbasso (Bernd Satzinger), batteria (Hubert Bründlmayer) e pianoforte, specialmente, che fa capo a Patrick Lammer, indovinato ed estroso direttore musicale dello spettacolo di cui lui è voce in più colori: al piano, da ottimo crooner , ma anche per commentare solo strumentalmente o da vero e proprio supporto d'ensemble azioni, colpi di scena e parti cantate della Komödie. Di cui le song sono tuttaltro che errori: da Falling in love with love recuperata proprio dal musical del ‘38 a Comment allez-vous e Stormy weather, Stranger in paradise, What a difference a day makes, My foolish heart ed una nutrita serie di R&B modello Blues brothers (“neri” fratelli erano anche loro, dopotutto) in odore di James Brown e/o Aretha Franklin di Think.

Sembrerebbe un paradosso ma la vera firma di Mason è scritta sull'acqua. Infatti l'intera scena (Michaela Mandel) è sull'acqua. Immersi quanto basta sono gli strumenti del trio, a sinistra, immersi gli oggetti di scena, a destra – tavoli, seggiole, pezzi d'arredamento – e su una sorprendente laguna scenica si erge il palcoscenico che è un piccolo ring al centro a cui conducono due “ponti” laterali galleggianti su cui è facile prevedere cadute ad arte, scivoloni ad effetto, “tuffi” modello Fontana di Trevi di Dolce vita, capriole d'ogni sorta.

La potenza allusiva dell'acqua, del resto, è infinita: acqua metafora di subconscio, acqua liquor vitale e liquido amniotico dunque nascita, acqua morte se si tratta di naufragio – quello apparentemente senza scampo della famiglia di Egeone. E, visto che di gemelli si tratta, acqua come sono “due gocce d'acqua” i fratelli identici che di solito non smettono di cercarsi nel mare dell'esistenza. Epperò ci sono almeno due “varianti” legate all'amore non fraterno: “gocce d'acqua” perché uniti da affinità elettive ed amorose come quando Adriana, moglie di Antifolo di Efeso, dice: “Siamo un solo corpo, inseparabili, legati come due gocce d'acqua nell'oceano” senza contare che l'acqua sembra essere l'habitat originario di Luciana, sorella di Adriana, se lei stessa è chiamata dall'amato sirena e dea che dall'acqua nasce e all'acqua ritorna.

Ma, fuor di metafora – è il caso di dirlo – le potenzialità sceniche offerte da quell'abbraccio liquido che accoglie il palco, non si contano. Salvo il monte di seggiole, ammassate a destra come pronte per un falò di Capodanno, non c'è niente e nessuno che non finisca bagnato, che non pericliti in quella laguna-madre, che non improvvisi baruffe, gag, capriole micro-carpiate. La farsa, del resto, sin dalla notte dei tempi, non si fa scrupolo di ricorrere a qualsiasi stratagemma. Persino quello di trasformare gli spettatori in potenziali sadici che esultano come bambini di fronte al fatto che ad inzupparsi fino all'osso siano gentili, vanitosissime mistress in mise Anni Cinquanta molto Doris Day e un filino Katherine Hepburn (costumi di Jan Meier) con tanto di spolverini e abiti a ruota, cappelli trapezoidali, abitini lamè, pericolose scarpine tacco 12.

Alla fine, quella “rotonda sul mare” che si erge fino ad inclinarsi verso la platea è come il fucile nelle commedie di tardo Ottocento: se ve ne è uno in scena al I atto è segno che al III sparerà. E la “rotonda” inclinata spara. Alla fine, sarà letto scivoloso di lotte e tuffi apparentemente involontari mentre è ancora acqua quella che un prete improbabile somministra dall'aspersorio che lui usa da Elvis, a mo' di microfono.

Acqua sia in terra tra gli uomini (e le donne) di buona volontà ma santa e benedetta è quella venuta dal cielo. Non è ancora una tempesta da Tempesta o da Re Lear ma è pioggia salvifica e precaria – come qualsiasi lieto fine, in scena e nella vita: inzacchera tutti, anche coloro che fino a quel momento erano rimasti all'asciutto. Sarebbe stato un “errore” non approfittarne per un tip tap e un charleston come Dio comanda. E che la Compagnia sciorina con una perizia non comune, sfido Gene Kelly a non spellarsi le mani...

Carmelita Celi

12/8/2015