RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il Barbiere di Rossini

Il Barbiere di Siviglia inaugura la stagione 2023 del Teatro Regio di Torino con sei recite in gennaio e tre in febbraio. Il titolo, con musica di Gioachino Rossini su libretto di Cesare Sterbini, ebbe la sua première il 20 febbraio 1816 al Teatro Argentina di Roma col titolo di Almaviva, o sia L'inutile precauzione, per non ricorrere allo stesso titolo dell'allora molto più conosciuto Barbiere di Siviglia, ovvero La precauzione inutile della coppia Paisiello-Petrosellini (?) (1782). E fu probabilmente proprio a causa dei sostenitori di Paisiello che Il barbiere di Rossini fece fiasco alla prima, per poi risollevarsi brillantemente e non uscire più dal repertorio. Oggigiorno pochi ricordano che nella fonte letteraria, la commedia La précaution inutile, ou Le barbier de Seville di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (23/02/1775), allignavano i germi della futura Rivoluzione, e che la seconda commedia della trilogia di Figaro fu vietata dall'imperatore Giuseppe II in quanto attizzava l'odio di classe (Mozart scrisse Le nozze in gran segreto, nel 1785-86, ed ebbe il permesso di rappresentarla solo dopo aver provato di aver rimosso tutti i riferimenti socio-politici): la commedia è stata adombrata dall'opera, in cui la satira si stempera nei più prevedibili “tipi” da melodramma buffo, seppur con caratteristiche che la distinguono dai melodrammi buffi allora in voga, come la vitalità , lo stile, il ritmo della musica rossiniana, e una certa metateatralità del testo di Sterbini, vedi il bel saggio di Emanuele Senici, riportato in monografia.

Al Regio di Torino Il barbiere mancava appena dal 2021. Ma nell'ottica di ritorno alla normalità dopo il sisma pandemico, nell'ottica di un teatro che si riavvia ad avere una programmazione non più frammentaria ma continua, ancorché scandita dai ritmi dell'anno solare, questo titolo rappresenta una scelta di comprovata presa sul pubblico, purché corroborata dai giusti interpreti. Chiamando a dirigere Diego Fasolis, non si poteva far di meglio. L'affermato direttore, specialista del repertorio barocco e belcantistico, torna al Regio dopo aver diretto l'Agnese di Ferdinando Paër, compositore di passaggio tra Sette e Ottocento che proprio dopo l'avvento del Pesarese introdurrà brani di spiccata vocalità rossiniana. La sua è una direzione quanto mai filologica, illuminata, avulsa da isterismi ritmici, meno leziosa, meno incipriata ma più attenta a cogliere i particolari strumentali e al rapporto tra buca e palcoscenico, che riesce mirabilmente sincronico, intelligente nell'emendare le incrostazioni di tradizione, aspetto cui tiene particolarmente, restituendo le tante appoggiature, cioè le dissonanze sulle quali il cantante momentaneamente si “appoggia”, per ottenere linee di canto più “morbide” e meno “secche”. All'orchestra, la valente Orchestra del Teatro Regio di Torino, chiede un suono asciutto, delineato e pulito, un suono che, in mancanza di strumenti originali o storicamente informati, cerchi il più possibile di “sapere di Settecento”: tale asciuttezza non si traduce in aridità, ma in uno studio di delicati e equilibri dinamici, con la trasparenza degli opportuni rilievi strumentali. L'aderenza alla partitura non esclude un certo grado di libertà interpretativa di ottimo gusto: i colpi di grancassa a imitazione del colpo di cannone, nell'”aria della calunnia”, o quanto meno il primo, per effetto sorpresa, suona almeno come un fortissimo, in luogo del prescritto forte in partitura, facendo davvero sobbalzare per la potenza (deve essere d'altro canto un colpo di cannone, non un mortaretto); stessa cosa per il reboante rullo di grancassa al termine della stessa aria, anch'esso non prescritto ma appropriato; raffinato l'accompagnamento e le divagazioni al fortepiano (di Carlo Caputo), come ad esempio, a inizio secondo atto, l'anticipazione, a mo' di disimpegnato strimpellare, dell'”aria di Caffariello” da Don Bartolo al clavicembalo, o, con gusto per la verosimiglianza, l'accordo dissonante, anzi, senza mezzi termini, la pestata sulla tastiera in buca, in scena sul clavicembalo da parte di un maldestro Don Alonso finto insegnante di musica. Stessa cosa per i cantanti, che pur rispettando il dettato rossiniano, se ne affrancano, nelle cadenze soprattutto, ricamando con grazia laddove è possibile.

I cantanti, appunto. Il cast della recita dal 28 gennaio, qui in esame, ha contemplato professionisti di buon livello, che pervengono alla quadratura del cerchio pur senza raggiungere l'eccellenza. Il Figaro di Rodion Pogossov esibisce voce piena, robusta ma flessibile, ben emessa e ben proiettata, oltre che convincenti capacità di recitazione; non male lo squillo e la tenuta degli acuti. Bene anche per l'Almaviva di Nico Darmanin, il cui stampo vocale non potrebbe essere più adatto al ruolo, collocandosi nel filone dei Blake o dei Giménez, ma senza averne la medesima prestanza. Sebbene qua e là la voce dia segni di cedimento, il tenore riesce a tratteggiare un Almaviva convincente, impreziosendo la recita di puntature ben fatte, prese con decisione, di momenti di estro, come la cadenza “spagnoleggiante” alla seconda strofa della “canzone di Lindoro” – durante la quale, in accordo con le indicazioni registiche, sale su uno sgabello e accenna passi di flamenco – e soprattutto dell'aria finale Cessa di più resistere, vero tour de force acrobatico e di resistenza, tagliata in altre recite e dagli altri interpreti (se ne ha notizia nella recita del 25 e del 31 gennaio, alla quale lo scrivente ha assistito). Si scende di livello col Don Bartolo di Riccardo Novaro: il difetto principale risiede nell'inconsistenza della voce, unita all'altalenanza di passaggi riusciti e altri meno: voce poco presente, parlante il giusto per essere un basso buffo, ma poco intellegibile nello scandire il sillabato. Se il tutore è assai mediocre, la pupilla invece brilla: Mara Gaudenzi va a segno di una Rosina energica, volitiva e femminile, in grazia di uno strumento ben rodato e collaudato, solido nel centro, ben dominato nei gravi e con acuti sicuri, nonostante le colorature poco sgranate, poco limpide. La fisicità la aiuta inoltre ad interpretare il ruolo (che a breve ricoprirà nuovamente: marzo-aprile a Rovigo, aprile a Ravenna, maggio a Novara). Vi è poi il Don Basilio di Guido Loconsolo. La sua prestazione piace, soprattutto dal punto di vista attoriale, una sorta di Raspuntin, capelli lunghi sotto il copricapo, saio e corda da francescano, figura alta e allampanata che, per vezzo registico, va in deliquio per odori e profumi. A confronto con Novaro, il suo timbro è più scuro, da basso vero; nel tentativo di scurirlo ulteriormente, però, la rende intubata: ma se tecnicamente può essere un demerito, ciò contribuisce in qualche modo a rendere il suo personaggio più grottesco. Molto validi i comprimari, il Fiorello e l'Ufficiale di Rocco Lia e la Berta di Irina Bogdanova, oltre al Coro della Casa istruito da Andrea Secchi.

Il successo arriso alla produzione non sarebbe stato possibile senza l'allestimento dell'Opéra national du Rhin (Strasburgo) in coproduzione con l'Opéra de Rouen Normandie (diretto da Antonio Stallone), per la prima volta a Torino. Regia, scene e costumi sono a cura di Pierre-Emmanuel Rousseau, che per l'occasione ambienta Il barbiere … a Siviglia (di questi tempi c'è da stupirsi), o comunque in un ambiente dalle chiare tinte spagnole: azulejos nella parte bassa delle pareti e in un riquadro sul pavimento, che nella scena della cavatina di Rosina scende per diventare il fondale di una bassa piscina, un impluvio, rosso veneziano nella parte alta fino al soffitto, dove centro si apre un oculus. Questa scena unica, con un balcone a sinistra, due porte nascoste nelle pareti laterali, due cancelli, uno a destra e uno a sinistra, e due finestre sul fondale, ai lati della statua della Vergine che si vede sfilare a inizio opera, si presta ai vari ambienti dell'opera: può essere un cortile interno della casa di Don Bartolo, gli ambienti della casa, e le finestre, le cui persiane sbattono comandate da un meccanismo elettrico mentre l'”aria della calunnia” è al suo culmine, con vapori che s'innalzano dall'acqua dell'impluvio e la statua della Madonna che lampeggia (tocchi che, con le luci di Gilles Gentner, diventano davvero luciferini), servono per il rapimento di Rosina a fine opera. I costumi, per ammissione di Rousseau, sono ispirati a un Goya che abbia messo le dita nella presa: un misto di folklore spagnolo, come i mantelli di Fiorello e dei suonatori a inizio opera o la cappa del Conte, vagamente torero, o ancora l'abito di Rosina, con tanto di ventaglio e mantilla, e rivisitazione personale, come quello di Figaro, che appare in canottiera bianca sporca, pantaloni neri, fascia in vita ed espadrillas rosse, come se fosse stato appena cacciato di casa da qualcuno – appare infatti letteralmente buttato fuori dal cancello di destra –: ha con sé un sacco al quale accenna quando dice che «al mio comando / tutto qui sta», a simboleggiare la sua ondivaga, quasi nomade natura di self-made man che col suo ingegno se la sfanga sempre, irriverente e socialmente trasversale, un po' trafficone alla Don Checco di De Giosa (il che cozza un po' col fatto che abbia un negozio con tanto di vetrina e insegna); si veste poi con un farsetto tutto rattoppato, che dalla platea appare un po' come un giubbotto da motociclista. Ammissibile tutto, perché qui, per una volta, i complicati intrecci della trama, che sfuggono al neofita («Io non ci sto capendo un c***», citazione carpita durante l'intervallo…), vengono resi palesi, dallo scambio del biglietto con la lista del bucato al Conte che fa segno di guardare al sigillo del suo anello per evitare l'arresto e dare l'avvio all'ensemble de perplexité. Meno convincenti invece i siparietti comici, o meglio: alcuni sì, perché fanno da gustoso intermezzo, come quando a sipario chiuso, durante un cambio scena, uno dei due servitori siede a mangiare uno spuntino e l'altro lo invita ad andar via (Mario Buzzi e Aldo Dovo, figuranti) – tra l'altro, spostando uno di loro una panca foderata in raso, la mente corre a «Questo azzurro sofà là collochiam» –; ma perché i suonatori devono fare la ruota con i loro mantelli dalle fodere variopinte, disponendosi innaturalmente a turno uno a destra e uno a sinistra? Perché il Conte deve accennare al summenzionato flamenco, o deve mimare una cavalcata con Figaro dandosi pacche sul sedere? Marcette, piroette e balletti punteggiano qua e là la recita quando la musica di Rossini “piroetta” a sua volta nei ritmi più frenetici: non che siano antiestetici, ma risultano un po' ridondanti (anche il fatto che Rosina allarghi le gambe stesa sopra il clavicembalo e sollevi la gonna davanti a un disorientato Conte/Don Alonso, mentre Don Bartolo è assopito su una sedia, ha un che di eccessivo…); e perché i due innamorati debbano essere portati via dal cestino di un pallone aerostatico che cala attraverso l'oculus (ecco a che cosa serviva!), resta un mistero. Ma a fine opera la si può anche sparare un po' più grossa e strappare al pubblico, come è stato, ben più di un applauso di stima. Rossini ne sarebbe stato contento!

Christian Speranza

7/2/2023