RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

I due Foscari alla Scala di Milano

Alla Scala torna l'opera I due Foscari di Giuseppe Verdi, che mancava dal 2009, ora in una nuova produzione allestita per Placido Domingo nella sua diversa corda vocale che contraddistingue la parte finale della carriera.

I due Foscari, tragedia lirica su libretto di Francesco Maria Piave, non ebbe una prassi esecutiva prolifica sin dall'esordio a Roma, il 3 novembre 1844; alla Scala si contano quattro edizioni nell'800 e bisognerà aspettare il 1979 per ritrovarla sulle tavole del Piermarini in un allestimento di Pier Luigi Pizzi e diretto dal giovane Ricardo Chailly (poi ripreso nel 1988 con la direzione del compianto Gianandrea Gavazzeni, del quale quest'anno ricorre il 20° anniversario della scomparsa). Seguirà la produzione diretta da Riccardo Muti e con regia di Cesare Lievi nel 2003 (ripresa nel 2009).

I due Foscari è una delle opere del primo Verdi lungamente sottovalutata e obliata, da musicologi, critica ed esecutori, fortunatamente negli ultimi decenni si registra una controtendenza. Qualità peculiare dell'opera è l'atmosfera e il modo in cui è creata musicalmente. Tratta dal dramma omonimo di Lord Byron (non scritto per la scena), è la vicenda cupa e di amara disperazione che il compositore coglie appieno, mettendo in risalto gli strumenti a fiato, con assoli di clarinetto e flauto che esaltano la scena malinconica. Un passo avanti nella fase di crescita, siamo al sesto spartito, e Verdi in tale scritto riuscì a mettere in musica la tenebrosa visione che il dramma byroniano suggerisce. L'opera ha un carattere “intimo” e tinta truce, cui il compositore trova una vena particolarmente affascinante d'invenzione anche se statica, rivelando anche una struttura drammatica in continuità riutilizzando i temi specifici per i personaggi e tracciando musicalmente un'evoluzione psicologica su essi.

Lo spettacolo era molto convenzionale, Alvis Hermanis (regia e scene) non cerca soluzioni astruse, si concentra sulla sobria narrazione tuttavia senza scavare troppo nel profondo della psicologia dei personaggi. Aggiunge un gruppo di otto mini-danzatori superflui, talvolta irritanti in una coreografia banale (Alla Sigalova). Non convincono le luci di Gleb Filshtinsky, troppo accademiche e abbaglianti, come neppure i continui calare e alzare di siparietti che forniscono fondali bellissimi proponendo celeberrimi quadri veneziani dell'epoca, compreso Hayez. In sostanza la regia era statica e povera d'idee, sovente banale come l'ammasso di leoni veneziani nel carcere del II atto, e la scena finale nella quale il vecchio Foscari muore nel suo letto a baldacchino. Anche le entrare dei protagonisti non lasciavano traccia, il coro utilizzato come elemento di contorno e immobile scenicamente. Memorabili, invece, i bellissimi e sfarzosi costumi di Kristine Jurjane, che si rifacevano anch'essi a celebri dipinti d'epoca.

Michele Mariotti si è impegnato in una lettura appassionata e precisa, cui si deve rilevare un'accurata calibrazione di colore e fraseggio orchestrale. In taluni casi scivolava su pagine enfatiche e forti, troppo marcate, non riuscendo costantemente a tenere compatto il rapporto con il palcoscenico (coro in particolare). Tuttavia si è trattato di una più che decorosa concertazione, anche in considerazione della difficile partitura e delle concessioni dovute a parte del cast e per questo taluni passi erano troppo routinieri.

Il coro istruito da Bruno Casoni ha svolto con onore il suo compito senza lasciare tracce memorabili.

Francesco Meli è uno Jacopo giovanile e malinconico come serve, la voce è bella e luminosa, ricca di sfumature e preziosi accenti. Il settore acuto lo mette sovente in disagio, tendendo ad aprire i suoni, ma è stata una prova più che onorevole e, sottolineo, oggigiorno unica forse carta spendibile nel ruolo. Molto bravo e appassionato nel terzetto “Nel tuo paterno amplesso”.

Anna Pirozzi è una Lucrezia con tanta voce, ma difetta in tecnica, la quale non le permette un canto omogeneo. La prima ottava acuta e stridula, mentre il sovracuto stranamente è ben calibrato e scolpito. L'accento e il fraseggio sono anche pertinenti, il grave leggermente forzato, abbisognava inoltre di più cure registiche nel rilevare anche la disperazione della giovane moglie impotente agli eventi del destino.

Molto bravo il severo Loredano di Andrea Concetti e precisi il Barbarigo di Edoardo Milletti, la Pisana di Chiara Isotton, il fante di Azer Rza-Zade, e il servo di Till von Orlowsky.

Per ultimo Placido Domingo poiché merita un discorso a parte. La carriera del famoso tenore è ora spostata ai ruoli baritonali. Scelta opinabile quanto personale. Ho già avuto modo di scrivere delle sue interpretazioni da baritono, e anche in quest'occasione non posso esimermi dal costatare che ci troviamo di fronte a un tenore “vecchio”, corto di mezzi, sovente affaticato che tenta con grande temperamento passi decisamente ardui. La tinta è chiara e ovviamente manca il peso specifico vocale del ruolo. Si ammira, in parte, la forza di volontà e l'impegno, cui sommiamo anche una certa dose di temperamento interpretativo, ma per chi scrive non è sufficiente per definire Domingo un “baritono” verdiano”.

Il pubblico, invece, ha gradito e al termine della quarta recita, cui ho assistito, ha decretato un autentico trionfo a tutta la compagnia, in controtendenza a quanto accaduto alla prima nella quale ci furono alcune contestazioni.

Lukas Franceschini

14/3/2016

Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano Teatro alla Scala.

.