RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

La guerra vista da chi non la fa

Schiller, scrivendo la sua Jungfrau von Orleans, volle definirla «tragedia romantica», mentre Verdi, ponendola in musica, preferì parlare di «dramma lirico». Per Barbora Horáková – praghese naturalizzata svizzera, ignota in Italia ma nome di punta tra i registi operistici internazionali di ultima generazione – comunque non ci sono dubbi: la Giovanna d'Arco verdiana è un Kriegsstück, “un pezzo teatrale di guerra”, e non solo perché il compositore di Busseto, seguendo le orme schilleriane, preferì far morire Giovanna sul campo di battaglia anziché sul rogo. Dunque, la sua messinscena nel cortile della Cattedrale di San Gallo (il teatro della città elvetica affida il titolo operistico estivo agli spazi aperti del Klosterhof) è una di quelle che, come si suol dire, prendono posizione: l'affresco bellico fagocita l'idillio pastorale; il barbarico prevale sul catartico; la ferocia dell'odio, che nell'opera di Verdi muove le masse, lascia ben poco spazio a quel disperato bisogno d'amore che invece permea, in modo differente, i tre protagonisti. E il continuo trascolorare tra celestialità bucoliche e oscurità dell'animo qui cede il passo a un pedale di tenebre fitte.

Siamo insomma agli antipodi d'un celebre scritto di Rodolfo Celletti («Quest'opera non è, salvo qualche passo, focosa, bellicosa, sanguigna. Carlo, Giacomo, Giovanna […] sono tre figure dolenti, allucinate trasognate», in Il teatro d'opera in disco, 1976), ma non è detto che un critico abbia antenne più sensibili di un regista. Tanto più quando quest'ultimo, ed è il caso della Horáková, ha alle spalle una solida formazione musicale. Come sempre, ciò che conta è l'onestà intellettuale dell'impianto e la coerenza con cui viene sviluppato: lo spettacolo risponde a entrambi i requisiti, risultando appagante – grazie pure ai costumi diacronici, dal Medioevo al nostro presente, di Annemarie Bulla – tanto sul versante estetico quanto su quello concettuale. Sotto il primo aspetto a essere vincente è la formula in sé della messinscena di fronte alla Cattedrale, la cui facciata interagisce con il resto della scenografia, in un'opera a soggetto religioso (oltre a Giovanna d'Arco negli ultimi anni sono stati allestiti Notre Dame di Schmidt e Stiffelio). E la vastità del palcoscenico, che consente di raccontare tanti episodi paralleli a fianco della vicenda che di momento in momento va svolgendosi, è tutt'altro che un fattore dispersivo. Anzi, paradossalmente, nel dipanare queste narrazioni accessorie tanto più la regista mette in luce la caratteristica dell'opera, che è quello di essere, dall'inizio alla fine, uno scontro a tre voci, dove per i comprimari non c'è spazio: Talbot e Delil, in fondo, sono soltanto un'appendice solistica del coro degli inglesi e dei francesi.

Sul fronte del Konzept, invece, il rischio del didatticismo ideologico è dietro l'angolo (cartelli brechtiani compresi), ma la regia l'aggira quasi sempre, grazie a una messinscena di forte evidenza materica. Se le orde di profughi, popoli in fuga da una guerra che non è solo quella narrata dal libretto, alternano momenti di poesia lancinante – l'apparizione, a palcoscenico ancora vuoto, di una giovane donna incinta che tiene per mano una bambina – ad altri drammaturgicamente ipertrofici, un costante incantamento viene dalla capacità della Horáková di raccontare la guerra con gli occhi di chi non la fa: le donne e i bambini, appunto, o i vecchi. E sono memorabili l'anziano svanito che si aggira compulsivamente con la radiolina in mano, aspettando i notiziari dal fronte; il bimbo africano con l'elmetto, ideale viatico per il transito dalla Giovanna fanciulla innamorata alla Giovanna vergine guerriera; il furore uterino delle vedove e madri dei caduti, che si lanciano in un'inopinata pantomima di violenza inaudita, quando in orchestra risuona uno di quei momenti bellicosi di cui pure Celletti riconosceva, a intermittenze, la presenza.

Il doppio cast mostra un alacre lavoro anche sulla recitazione dei protagonisti, sebbene la prima compagnia appaia, sotto tale profilo, più compenetrata. È interessante soprattutto lo scavo del personaggio di Giacomo, il più estremista dei padri verdiani, talmente geloso dell'onore della figlia da gettarla in pasto alla folla quando inizia a crederla impura: la Horáková gli imprime tragica verosimiglianza trasformandolo in un uomo di chiesa, crocifisso al collo e sacre scritture in mano; ed Evez Abdulla – timbro arido ma emissione solida, fisicità massiccia ma attore duttilissimo – ne fa un ritratto memorabile. Nel secondo cast Giuseppe Altomare si è segnalato per una maggiore morbidezza vocale, unita a un'incarnazione meno incisiva.

Quanto a Carlo VII, re senza corona, Mikheil Sheshaberidze e Giorgi Sturua glissano sulla sua dimensione sentimentalmente antieroica, cercando la via di un'ossimorica epicità perdente: scelta giusta, trattandosi di tenori “centrali” poco inclini al canto diafano e sinuoso, che il primo è però in grado di sviluppare grazie a sonorità robuste, mentre il secondo appare tuttora acerbo. Elusiva della dimensione belcantistica è anche la protagonista Ania Jeruc (ma è la stessa impaginazione dello spettacolo a risultare dissonante con i momenti di canto soave e legato), peraltro fraseggiatrice autorevole e attrice intensa. A restituire dolcezza di cavata, fluidità di vocalizzazione, pianissimi celestiali ma perfettamente timbrati è invece la Giovanna della seconda compagnia, Marigona Querkezi, una spanna sopra gli altri sul piano tecnico come su quello stilistico. E due sono pure le mute interpreti di Giovanna bambina: a darsi il cambio, a seconda che agisca la castana Jeruc o la bionda Querkezi, sono le piccole Eva Leippold e Josette Schindler. Impagabili entrambe.

Sul podio, Modestas Pitrenas non mostra gran sintonia d'intenti con la regista (anzi, nella sinfonia sembra indurre a un paesaggismo serenamente idilliaco), anche perché in un contesto così ha altri conti da far quadrare: l'orchestra invisibile non solo al pubblico, ma ai cantanti; gli ampi spazi che spesso creano grandi distanze tra i solisti; le maglie della microfonazione. Dunque stacca tempi cauti (un po' dissinescanti nella cabaletta del tenore), pecca talvolta di anelasticità, ma assicura l'appiombo complessivo e consente alle voci di mantenere – quasi sempre – ritmo e intonazione.

Paolo Patrizi

29/6/2022

La foto del servizio è di Xiomara Bender.