RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Tra matti e padroni...

Il Furioso di Donizetti a Savona

Il furioso all'isola di San Domingo, seconda produzione donizettiana del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti 2013, è approdato il 20 ottobre (il fine settimana successivo al debutto bergamasco) al Teatro Chiabrera di Savona, per la stagione dell'Opera Giocosa, e continuerà il tour in alcuni teatri di tradizione italiani (Modena, Rovigo, Piacenza, Ravenna) nei prossimi mesi. Scelta lodevole sia quanto al metodo sia quanto al merito: da un lato, infatti, la coproduzione permette di ottimizzare le scarse risorse finanziarie disponibili; dall'altro lato, essa permette di far conoscere, anche al di fuori della cerchia dei professionisti e degli appassionati che si metterebbero in viaggio verso Bergamo, un titolo di Donizetti che la maggior parte degli spettatori ignora. Un plauso va dunque alla direzione dell'Opera Giocosa, che ha osato sfidare il teatro semivuoto proponendo un titolo inconsueto; un rimprovero ai savonesi, che si son dimostrati poco ricettivi nei confronti di una proposta così stimolante; e un'esortazione ai dirigenti dei teatri lirici maggiori, che dovrebbero riflettere sulla possibilità di inserirsi nella coproduzione di qualche titolo raro invece di appiattire sempre più i loro cartelloni sulla solita tiritera nazionalpopolare.

Il furioso all'isola di San Domingo, andato in scena a Roma nel 1833, su libretto di Iacopo Ferretti, si definisce semplicemente «melodramma in due atti», ma appartiene senza dubbio al genere semiserio, del quale Donizetti fu ultimo massimo compositore: dopo la sua Linda di Chamounix, infatti, non si rammentano titoli semiseri entrati nella storia dell'opera. Con “semiserio” non ci si sta riferendo qui alla generica opera seria a lieto fine (tipo La sonnambula, per intendersi), ma a quei titoli che prevedono l'innestarsi, nella medesima trama, di un elemento serio, al limite del tragico, e di un elemento buffo, incarnato dalla tipica voce del basso. Nel Furioso, l'elemento serio è costituito dalla vicenda di Cardenio, che vaga sull'isola di Santo Domingo folle d'amore, del fratello Fernando che va in cerca di lui per salvarlo, e della moglie fedifraga Eleonora che, pentita, cerca di ottenere il perdono del marito inaspettatamente ritrovato. Quando i coniugi, alla conclusione della vicenda, si ritrovano a tu per tu, e sembra loro che non vi sia alcun modo di recuperare la felicità perduta, decidono di mettere in atto un doppio suicidio, sventato dal fortunoso intervento degli altri personaggi; solo a questo punto Cardenio accetta appieno il pentimento di Eleonora, e la trama può sciogliersi felicemente. L'elemento buffo ruota, invece, attorno alla figura di Kaidamà, schiavo nero pavido e sottomesso, sempre preoccupato di salvare la propria pelle dalle escandescenze del matto e dalle angherie del padrone Bartolomeo.

Non è facile restituire la complessità del genere semiserio agli spettatori odierni, che tendono a semplificare troppo la lettura delle espressioni artistiche e hanno difficoltà a colmare la distanza culturale che li separa dal mondo in cui queste opere sono nate. Nel caso del Furioso, per apprezzare la partitura donizettiana nella sua originaria natura occorre, da un lato, sapersi commuovere all'idea di un uomo impazzito per amore, che giunge due volte sul punto di togliersi la vita; dall'altro, non porsi problemi nel considerare come semplice oggetto di riso uno schiavo nero un po' sempliciotto sottoposto a continue vessazioni. L'idea che anche nel tragico ci sia un lato comico, e che anche nel buffo ci sia un sottofondo tragico, dovrebbe emergere dai retro-pensieri come frutto dell'esperienza estetica; non si dovrebbe, perciò, commettere l'errore di annullare la percezione di una delle due componenti di questo specifico genere di melodramma. Capita spesso, invece, che l'essenza del genere semiserio venga travisata, e così è accaduto anche in occasione del Furioso savonese. La regia di Francesco Esposito – che si avvaleva delle piacevoli scene naïf di Michele Olcese tratte da un progetto inedito di Emanuele Luzzati – ha infatti sbilanciato la lettura dell'opera sul versante buffo, negando ai personaggi seri il loro vero statuto.

Personaggio in cui è stata particolarmente evidente la spoliazione del carattere serio è Eleonora, la moglie fedifraga pentita. A lei competono, oltre al duetto di riconciliazione con Cardenio, due arie di puro belcanto, affrontate con proprietà di linguaggio e variazioni nelle riprese melodiche dal soprano Cinzia Forte. Tuttavia, l'impostazione registica la costringeva a recitare la parte della prima donna un po' coquette che, nell'aria di sortita, recita la parte dell'afflitta come se si trovasse davvero su un palcoscenico, e nel rondò finale si veste da sposa, come se la riconciliazione col marito non le suggerisse altro che la necessità di nuovi festeggiamenti mondani. Altre due arie di puro belcanto – in questo caso, forse, un po' fini a sé stesse e drammaturgicamente marginali, ma nondimeno stupende e impervie – spettano a Fernando, giunto alle Antille in cerca del fratello Cardenio: il tenore Francesco Marsiglia le ha cantate con la propria voce rossiniana, chiara e luminosa, rivelando, in particolare nel II atto, un accorto fraseggio. Sono invece privi di una propria aria i due personaggi su cui fanno perno la trama seria e quella buffa dell'opera, il protagonista Cardenio e lo schiavo Kaidamà. Che il protagonista sia senza aria – gratificato però da numerosi duetti, da recitativi di forte peso drammatico e da passi di arioso nell'ambito dei numeri d'assieme – non è certo un caso unico nel catalogo donizettiano, e testimonia la ricerca di modalità espressive che si distanziano dalle convenzioni. Cardenio e Kaidamà si incontrano poi ben due volte, una per atto, in duetti che hanno la precipua funzione di portare plasticamente sulla scena l'incontro dei generi sui quali si fonda l'opera semiseria. Se la percezione della questione dei generi è stata penalizzata dall'impostazione dello spettacolo, sono viceversa emersi bene i caratteri dei personaggi grazie alla scaltrezza interpretativa dei baritoni che li incarnavano: Simone Alberghini (Cardenio) ha messo in luce i repentini mutamenti psicologici cui il folle è soggetto, ma anche l'umanità che si cela sotto la sua mente turbata; Federico Longhi, proiettandosi per l'occasione nella tradizione del basso parlante, ha dato risalto al carattere macchiettistico dello schiavo nero. Hanno completato più che dignitosamente il cast il basso-baritono Leonardo Galeazzi nel ruolo di Bartolomeo e il mezzosoprano Marianna Vinci in quello di sua figlia Marcella; entrambi hanno un certo peso nell'introduzione, per poi diventare seconde parti.

L'esecuzione musicale, occorre sottolineare, è stata di alto livello, sia per ciò che riguarda i solisti, sia per ciò che concerne le compagini del Bergamo Musica Festival, guidate con attenzione da Giovanni Di Stefano, e gli spettatori sono usciti dal teatro soddisfatti (fin troppo vivacemente, se si pensa che l'applauso finale si è inserito sull'acuto conclusivo del soprano); tuttavia, resta il dubbio che molti di loro si siano convinti d'aver assistito a una farsa, a un divertissement in cui gli stessi tentativi di suicidio non sono che colpi di scena, piuttosto che a un'opera con forti risvolti patetici.

Marco Leo

6/12/2013