Sconquasso neoclassico 
Se Cherubini continua a rappresentare per molti il predominio della “fattura” sull'“ispirazione” (l'epitome d'un neoclassicismo erudito e severo, certo squisito ma difficilmente trascinante), mentre secondo Beethoven la sua era invece “musica drammatica” quintessenziata, è probabile che qualcuno stia sbagliando. Oppure che, in realtà, si parli di due musicisti diversi. E in effetti pochi compositori hanno conosciuto una ricezione antitetica come l'autore di Medea: anche perché all'insegna dell'antitesi è stata, nel tempo, la parabola esecutiva di questo suo capolavoro. Quando vide la luce a Parigi nel 1797, Médée – lingua francese, dialoghi parlati – aveva poco a che fare con Medea come l'abbiamo conosciuta grazie a Maria Callas, ritrovata con Leyla Gencer, riapprofondita attraverso Gwyneth Jones e così come ora è approdata al San Carlo grazie al carisma di Sondra Radvanovsky: una folgorazione drammatica, un'epifania dei tragici greci con il viatico del più concentrato e tagliente canto operistico. L'originario bozzolo dell' opéra-comique, con i rallentamenti delle parti in prosa e le maggiori nuances dell'idioma d'oltralpe, incarnava meglio l'ideale neoclassico degli anni postrivoluzionari? O, al contrario, era un format dove Cherubini – gli artisti italiani “adottati” dai francesi hanno sempre dovuto sacrificare qualcosa della propria individualità – s'inserì con spirito di adattamento più che autentica convinzione? La domanda investe l'ontologia stessa del compositore fiorentino, perché c'è poco da fare: nonostante Lodoïska e Les deux journées, è con Medea che Cherubini continua a essere identificato; e se gli ultimi lustri hanno spostato l'ago della bilancia verso il più freddo e marmoreo Cherubini “francese”, il modello callasiano periodicamente si riaffaccia con l'imperatività dei corsi e ricorsi storici. Il trionfo della Radvanovsky a Napoli (un'artista con una personalità tale da non potersi dire epigona di nessuno, ma idealmente inserita nel solco tracciato dalla Callas) sta a confermarlo.
Tornando ad avvalersi dei recitativi musicati a metà Ottocento da Franz Lachner (un'orchestrazione che riconduce l'opera nell'alveo del dramma musicale tedesco, di cui Cherubini fu antesignano come Beethoven aveva intuito all'indomani dalla première) e della versione ritmica italiana di Zangarini (con quell'entrata “È forse qui che il vil sicuro sta?” irrinunciabile per chiunque abbia nelle orecchie la Callas), questa Medea del San Carlo riporta dunque in primo piano l'urgenza drammatica: sposando la causa di un Cherubini chiamato a sconquassare, anziché salvaguardare, la temperanza neoclassica. Operazione niente affatto esteriore, dato il frastagliatissimo scavo interpretativo della Radvanovsky, e men che meno manicheistica, giacché la ritrovata incandescenza del dramma rappresenta per la regia di Mario Martone un autentico percorso ermeneutico. La direzione di Riccardo Frizza appare meno connotata, e dunque manca un solido terzo lato per completare il triangolo, ma lo spettacolo lascia comunque il segno.
Consapevole dell'intrinseca diacronicità di Medea (un'opera nata francese e settecentesca, radicalmente ripensata nella sua strumentazione tedesca e ottocentesca, infine italianizzata e come tale introiettata nel Novecento), Martone innesta a sua volta un percorso storico-temporale: una tragedia euripidea restituita in cornice vittoriana, con il concorso di una figuratività contemporanea riassunta nell'omaggio al cinema di Lars von Trier. L'allineamento dei due pianeti – i due figli di Medea uccisi dalla madre – fino alla più disastrosa deflagrazione è infatti un'esplicita citazione di Melancholia, laddove abiti, castelli e prati inglesi primonovecenteschi sembrano suggerire lo stesso percorso del Trasgressore di D. H. Lawrence: borghesi velleitari che tentano di fare della propria esistenza lì un'opera di Wagner, qui una tragedia greca.
Contemporaneamente, Martone lavora su una drammaturgia dello spazio: cantanti, orchestra e spettatori confluiscono in un'unica azione scenica, la rappresentazione va oltre il palco abbracciando l'intera platea. È un ideale ritorno all'agorà come spazialità fondante dei classici greci e, insieme, un modo per creare un'osmosi tra l'eternità di Euripide e il presente di noi infinitamente più piccoli: il mondo barbarico della Colchide e l'aridità sociale di oggi, lo sgomento dei corinzi e le nostre depressioni, tutto entra in risonanza; mentre nel frattempo coro, solisti e figuranti (anche il vello d'oro si fa personaggio, in una rievocazione mimico-coreutica) agiscono ora a fianco degli orchestrali e ora alle spalle del pubblico, in un andamento dinamizzato che però – per quelle miracolose alchimie del teatro – lascia intatta tutta la magnetica fissità della tragedia. In tale cornice la Radvanovsky imprime la sua Medea cupa (in certi timbratissimi affondi di petto) e acuminata (negli acuti stilettati), sfiorita eppure catturante (nell'aspetto un po' fané ma seduttivo e in una vocalità timbricamente inaridita ma formidabile per risonanza), camaleontica nel fraseggio trascolorante dal ripiegato al perentorio, capace di affondi espressionistici dove il grido e la risata mantengono però ancora una stilizzata idea di canto.
Le fanno da antagonista e deuteragonista la voce freschissima della ventiseienne Désirée Giove e quella più usurata, ma intatta in certe formidabili fascinazioni coloristiche, di Anita Rachvelishvili. La prima è una Glauce soave nel “legato” e limpida nelle levigate simmetrie della sua aria, capace anche di conferire un tocco di modernità – trapela un'ambiziosità anaffettiva, senza la retorica della fanciulla vittima sacrificale – alla novella sposa di Giasone. Mentre la Rachvelishvili crea una figura di autentica altezza drammatica per un personaggio, l'ancella Néris, che di fatto si risolve in un'unica aria: il canto è sontuoso, con uno spiccato gusto per i portamenti, ma il fraseggio non è da meno – emerge tutta la macerazione dell'impotente testimone d'una catastrofe imminente – e la dialettica con il fagotto che s'instaura nella sua aria è un prodigio di miscele timbriche. Giorgio Berrugi (presente alla recita del 16 dicembre alla quale abbiamo assistito) dà vita a un Giasone antieroico (o forse ex-eroico, come se il matrimonio l'avesse imborghesito) e comunque ben cantato, mentre il Creonte di Giorgi Manoshvili unisce sonorità e morbidezza, attraversato da una malinconia che è già premonizione della morte. Frizza li sostiene con tempi equilibrati, senza che dal podio emerga un'autentica lettura musicale: l'orchestra del San Carlo nella sinfonia sembra patire un po' di questa latitanza, per poi prendere quota. Incisivo da subito invece il coro istruito da Fabrizio Cassi, qui molto impegnato anche sul fronte attoriale.
Paolo Patrizi
20/12/2025
La foto del servizio è di Luciano Romano.
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