RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Nel furore del genio belliniano

L'appuntamento più atteso della Quinta edizione del Bellini International Context, la rassegna multidisciplinare dedicata ogni anno, grazie alla Regione Siciliana e alla cooperazione tra le città di Catania, Messina e Palermo, presenti anche con le loro principali istituzioni liriche e culturali, al Cigno, ai suoi melodrammi e al suo tempo, era senza dubbio l'allestimento de Il Pirata, l'opera che segnò il primo grande trionfo di Bellini sulla scena lirica internazionale, con la prima del 27 ottobre 1827 alla Scala di Milano, esordio salutato da un enorme successo che aprì al Cigno le porte della sua sfolgorante, ma purtroppo brevissima carriera. Come ogni anno, l'opera è stata data al Bellini di Catania il 23 settembre, giorno della morte del compositore, della quale quest'anno ricorre il 190° anniversario, in un'unica rappresentazione, scelta questa abbastanza discutibile, dato che, a giudicare dall'affluenza del pubblico, composto in buona parte da turisti, sarebbe stato sicuramente meglio aggiungere almeno una replica, se non altro per consentire a un più ampio numero di appassionati e neofiti, considerato anche il costo contenutissimo del biglietto, di godere delle musiche dell'autore di Norma, con uno spettacolo per molti versi sicuramente riuscito e accattivante.

Opera che segna l'inizio della collaborazione tra Bellini e il librettista Felice Romani, complice e sodale del musicista in quella che sarebbe stata la rivoluzione silenziosa, drammaturgica e musicale a un tempo, che avrebbe condotto il catanese a forzare i limiti delle forme chiuse del melodramma, in una valorizzazione sempre più ampia dei recitativi e dell'uso del canto sillabico a tutto disfavore del canto fiorito, spianando di fatto la strada a Giuseppe Verdi, che di questa rivoluzione sarebbe stato l'erede più fecondo e intelligente, Il Pirata si pone come spartiacque tra Rossini e la sua concezione vocale, della quale conserva e mantiene molti moduli, e l'idea tutta belliniana che il melodramma debba far piangere, soffrire e partecipare realmente il pubblico, cosa impossibile con i canoni tradizionali antecedenti, dove erano i cantanti a dettare legge e non le esigenze drammaturgiche. Ne deriva dunque una sostanziale ibridicità di quest'opera, che si traduce in una notevole difficoltà per i cantanti, sia per la sua lunghezza, sia soprattutto per le ardue tessiture richieste, e per la coesistenza tra moduli ancora belcantistici (nel senso strettamente storico del termine) e le nuove necessità avvertite da Bellini, vale a dire recitativi sempre più ampi e icastici, tessiture non più giocate solo sulle zone acute e sovracute, ma anche su quelle centrali e gravi (il che richiede soprani in grado di gestire le sonorità centrali e gravi con quasi uguale potenza vocale di quelle acute), e infine un'attorialità che deve sempre più spesso tradursi in una resa scenica non più affidata alle semplici movenze del tardo Settecento, ma nel gesto teatrale, nella reale interazione tra i cantanti, insomma in una immedesimazione che scolpisca il personaggio, i suoi mutamenti psicologici, il suo dramma interiore, in una parola quella evoluzione che lo distaccherà in maniera irreversibile dalle vuote figurine canore di tanti attardati melodrammi coevi che, ancora vivente Bellini, affollavano i cartelloni e che ai nostri giorni appaiono assolutamente insignificanti dopo le innovazioni del nostro Cigno.

Fatta questa doverosa premessa, non si può non rendere merito al BIC per l'allestimento di quest'opera, sia per la scelta del cast vocale, sia soprattutto per l'interessante taglio registico di Renato Bonajuto che, coadiuvato dalle scene e dai video di Ancangelo Mazza, con immagini liberamente elaborate sui bozzetti di Alessandro Sanquirico per la prima milanese del 1827 alla Scala, ha ricreato idealmente il fil rouge che lega Il Pirata all'assoluta modernità di Bellini, modernità che ancor oggi ne fa uno dei compositori più rappresentati in tutto il mondo. I video infatti, funzionali e coinvolgenti, soprattutto all'inizio e alla fine, quando vorticose immagini di un mare in tempesta amplificavano e scolpivano il tormento dei personaggi, dilatavano in senso dinamico il palcoscenico, complici anche le luci di Antonio Alario, mai statiche ma sempre tese a incalzare e seguitare l'azione, in un crescendo che riusciva a mettere in ombra gli aspetti più tradizionali dell'opera esaltandone di converso il ritmo serrato dei singoli quadri. Gradevoli anche i costumi di Marianna Fracasso, pur se abbastanza eterogenei per quel che riguarda l'aspetto storico, in un pittoresco guazzabuglio di stili poco adatto ai fondali d'ambiente, decisamente non ottocenteschi, ideati da Sanquirico.

Sul fronte musicale, l'orchestra del nostro teatro, guidata dal giovane Marco Alibrando che ha staccato con precisione i tempi, con qualche rallentamento insolito solo nelle cabalette, si è distinta sin dalla Sinfonia d'apertura per la sua notevole compattezza fonica, per la precisione nell'attacco e nel rilascio del suono, per una grande attenzione accordata alla dinamica e all'agogica e soprattutto per gli interventi solistici, in particolare quelli del corno inglese, del flauto e dell'arpa, rivelandosi perfettamente a proprio agio nell'esecuzione delle partiture belliniane. Ottimo anche il coro, diretto come sempre da Luigi Petrozziello che lo ha reso una compagine molto affiatata, con sonorità sempre adeguate e mai soverchianti, e che ha dato prova di una notevole morbidezza di suono, soprattutto nella sezione femminile.

Quanto ai cantanti, non si può non rendere loro merito per aver affrontato una prova così impervia, sia per la lunghezza che per le particolarità vocali cui abbiamo accennato, con il caldo quasi asfissiante che regnava in teatro, ancor più tremendo per gli artisti a causa dei costumi non certo leggeri che indossavano, cosa che li ha condotti al secondo tempo con una stanchezza via via sempre più avvertibile. Il baritono Franco Vassallo, nel ruolo di Ernesto, ha ancora una volta confermato le sue doti di cantante di grande temperamento, molto più a suo agio nella scena decima del primo atto, con la cavatina “Di sì nobile vittoria”, dove il canto spianato permetteva alla sua voce di spaziare liberamente dando pieno sfogo agli acuti e a una zona centrale di tutto rispetto, che nel secondo atto, e precisamente nel duetto con Imogene, dove le ancor troppo vive reminiscenze rossiniane lo hanno visto talvolta in affanno, data la sua vocalità più adatta a quell'evoluzione del baritono che, dalla Straniera in poi, condurrà questo registro ai fasti verdiani.

Celso Abelo, un Gualtiero di grande possanza vocale, ha condotto il suo personaggio con notevole immedesimazione, dando prova di ottime capacità attoriali, coadiuvate anche da una dizione egregia e da un'innata musicalità, di un'ottima tenuta di fiati e di un'agogica sempre accattivante, che trovava i suoi momenti più felici nell'effusione lirica e nei pianissimo davvero commoventi, ma purtroppo anche per lui non può non esser valido quel che dicevamo sopra: la coesistenza dei due moduli vocali ne ha inficiato in certo modo la resa, determinando, soprattutto nel secondo atto, un certo logoramento, che si è tradotto in alcune imprecisioni, come in “Tu vedrai la sventurata”, e nel taglio della ripresa della cabaletta “Ma non fia sempre odiata”.

Irina Lungu ha infuso alla sua Imogene un commovente afflato lirico, con acuti e sovracuti smaglianti e sempre ben coperti, ottenendo un autentico trionfo nel finale, dove “Col sorriso d'innocenza” ha strappato entusiastici applausi al pubblico; meno convincente la sua prova è purtroppo apparsa sia nella dizione, non sempre perfetta, ma soprattutto nell'uso della zona centrale e di quella grave, spesso poco incisive e alquanto opache, prive di quella drammaticità cupa che si insinua a tratti nel personaggio, e nei recitativi, dei quali la cantante moldava non sembra ancora aver trovato perfettamente la quadra, forse per quella stanchezza diffusa nel secondo atto cui accennavamo, che ha condotto anche lei, nella ripresa della cabaletta “Oh, Sole! Ti vela” a non rendere chiaramente il temibile intervallo di settima discendente nel quale era maestra la Callas.

Di buon livello anche tutti i comprimari, dal possente basso Mariano Buccino (Goffredo), che avevamo già apprezzato nel Galà Inaugurale del 13 settembre, all'Itulbo di Ivan Tanushi, mentre una menzione particolare va all'Adele di Silvia Caliò, mezzosoprano dalla voce luminosa e ampia, che si è ben distinta nei pochi momenti solistici a lei assegnati.

Giuliana Cutore

24/9/2025

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.