RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Der junge Lord a Firenze

Henze nostro contemporaneo

L'enorme ricchezza del teatro musicale di Hans Werner Henze nasce in contrapposizione alla rigidità normativa della scuola di Darmstadt, quasi come rivendicazione della fantasia al potere di romantica memoria. Forse proprio a causa dell'eclettismo di un pensiero assolutamente libero, capace di reinventarsi continuamente, il suo lascito è stato in parte trascurato, specialmente nella sua patria d'elezione, l'Italia, che invece dovrebbe celebrarne la personalità unica e feconda. Per questo tanto più meritoria appare l'operazione del Maggio musicale fiorentino, che ha voluto mettere in scena uno fra i titoli più significativi del nutrito catalogo del compositore, di rarissima esecuzione dalle nostre parti. Stiamo parlando di Der junge Lord, partorito dalla fervida creatività di Ingeborg Bachmann e andato in scena per la prima volta a Berlino nel 1965. Lo spunto, giunto da una novella di Wilhelm Hauff, dà vita a una vicenda dalle complesse risonanze simboliche. Motore dell'azione l'irruzione dell'insolito nell'apparente tranquillità del quotidiano. Siamo nel 1830: l'attesa di un nobiluomo inglese in una cittadina tedesca di provincia accende enormi aspettative, destinate a essere frustrate. L'arrivo di un piccolo circo accentua l'alterità fra gli abitanti, frutto di educazione tipicamente Biedermeier, e i saltimbanchi che popolano il tendone. Nel secondo atto il clima di inquieta sospensione si complica ancora di più per l'avvento del giovane Lord del titolo, il quale porta scompiglio nel conformismo borghese. Al suo apparire molti ne lodano l'atteggiamento insolito, impetuoso e stravagante. Con il suo scardinare le convenzioni, il Lord insinua nel mondo l'elemento schizoide, mostrando il caos e l'insicurezza del reale. Lo svelamento conclusivo, egli non è altro che la scimmia del circo, mette i personaggi di fronte all'orrore più imperscrutabile. Secondo Fedele D'Amico il libretto vergato dalla Bachmann “col tema essenziale e immutabile della sua poesia non ha molto a che fare”. A ben guardare, a nostro avviso, numerose sono le assonanze con la sua esperienza letteraria, prima fra tutte quella convivenza di eventi visibili e invisibili, di realtà e apparenza che ne marcano il carattere sommamente ambiguo e sfuggente.

Magistrale lo spettacolo andato in scena al Maggio, forte di una visione registica narrativamente impeccabile, intelligentemente orchestrata da Daniele Menghini. Le scene di Davide Signorini e i costumi di Nika Campisi, esteticamente molto belli, delineano in maniera efficace la distanza fra le atmosfere della cittadina, assolutamente ordinarie, e le visioni eccentriche introdotte dal seguito di sir Edgar, con i suoi orpelli da wunderkammer e le figure che lo accompagnano, abbigliate in maniera oltremodo originale. Non è un caso che il Segretario indossi un vestito con gonna, e che Lord Barrat entri in scena abbigliato con il medesimo attributo femminile, in seguito adottato dai partecipanti alla ridda conclusiva, quasi una danza macabra che travolge la piccola comunità e il mondo intero. Il tutto con pluralità semantica, a distillare la molteplicità di segnali dei quali è pregno lo spettacolo. L'idillio amoroso fra Luise e Wilhelm si rivela illusorio, quando la fanciulla cade preda del magico fascino di Lord Barrat. La violenza sottesa a una società apparentemente pacifica emerge all'inizio del secondo atto, con i bambini che offendono il moro per il colore della sua pelle (e qui viene in mente Il nastro bianco di Haneke, dove il microcosmo di un villaggio prima dell'avvento del nazismo viene descritto come incubatrice della violenza più disumana). L'odio nei confronti del diverso si esplicita nell'ostilità degli abitanti verso i funamboli. In quest'ottica la scimmia diviene simbolo della brutalità insita nell'essere umano. Come il Kaspar Hauser di Werner Herzog, il primate approccia il linguaggio ma resta comunque confinato nella categoria del diverso, dell'emarginato senza possibilità di riscatto. Di grande impatto la scena in cui, dopo il monologo di Luise, Lord Barrat le offre una rosa ferendola al dito, reminiscenza fiabesca ma anche eco di atmosfere straussiane deformate dall'eclettica ispirazione di Henze. Da qui in avanti il caos cresce con progressiva irruenza, e non c'è niente che si possa fare per arginarlo. La vertigine sconvolge la nostra anima, lasciandoci attoniti di fronte a interrogativi abissali. Perfetta l'esecuzione musicale. Markus Stenz governa il complicato meccanismo sonoro con lucidità e assoluta padronanza delle sue articolazioni; ne risulta una lettura ricchissima nei rimandi citazionistici, persuasiva nella sua alchemica fusione di modernismo e tradizione. L'Orchestra del Maggio lo segue egregiamente e anche il Coro, comprese le voci bianche, si disimpegna con preziosa disinvoltura. Siamo di fronte a un'opera corale, nella quale ognuno svolge la propria parte in maniera egregia. Detto ciò, alcune individualità emergono. Vogliamo citare fra gli altri l'eccellente Martina Comparato nell'arduo ruolo della Baronessa e Marily Santoro, una Luise morbida nel timbro e sempre a fuoco nei panni dell'innamorata che scopre il proprio lato oscuro. Nikoletta Hertsak è una Ida spassosa nelle sue movenze da bambola meccanica, vocalmente sicura nelle puntature acute. Fra gli uomini ricordiamo il Segretario di Levent Bakirci, dalla vocalità colma di mistero, e Matteo Falcier, a proprio agio nell'ardua tessitura di Lord Barrat, particolarmente impressionante nelle urla che scuotono il villaggio veicolando oscuri presagi. Di grande efficacia attoriale, infine, la prova di Giovanni Franzoni nel ruolo muto di sir Edgar. Trionfo in un teatro gremito in ogni ordine di posti in occasione della terza e ultima recita.

Riccardo Cenci

5/6/2025

La foto del servizio è di Michele Monasta.